Lo sciopero in corso nel quadro delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro del settore automobilistico negli Stati Uniti si intreccia questa settimana con la campagna elettorale per le presidenziali del 2024. Martedì, il presidente Biden ha fatto visita agli scioperanti in Michigan, ufficialmente per esprimere il sostegno della Casa Bianca al sindacato UAW. Mercoledì toccherà invece a Donald Trump sfruttare politicamente la situazione con un discorso davanti a qualche centinaio di iscritti al sindacato nello stesso stato del Midwest americano.

 

I vertici UAW hanno deciso una strategia insolita per condurre i negoziati con le tre principali compagnie automobilistiche USA: General Motors, Ford e Stellantis (ex FCA). Con una mossa senza precedenti, il 15 settembre scorso era stato indetto uno sciopero in tre impianti appartenenti ciascuno ad ognuna delle tre società. Sulla carta doveva essere un modo per mettere pressioni su tutti e tre i vertici aziendali, dal momento che di solito la trattativa si concentra inizialmente su una sola compagnia e, una volta trovato l’accordo, il nuovo contratto viene in larga misura adottato anche per le altre due.

In realtà, UAW ha in questo modo limitato il numero dei lavoratori in sciopero a meno del 10% del totale di quelli impiegati da General Motors, Ford e Stellantis. Oltretutto, gli impianti fermati dallo sciopero sono centri di distribuzione e la protesta non sta avendo quindi conseguenze sulla produzione, contenendo al minimo i danni per le aziende. Senza dubbio dietro pressioni degli iscritti, venerdì UAW ha allargato lo sciopero ad altri 38 stabilimenti in tutti gli Stati Uniti, portando il totale dei lavoratori coinvolti a poco più di 18 mila sui circa 146 mila complessivi.

Sempre venerdì, il presidente di UAW, Shawn Fain, aveva annunciato qualche passo avanti nel negoziato con Ford, anche se a suo dire rimangono ancora alcune questioni “serie” da risolvere. Allo stesso modo, domenica un comunicato della stessa compagnia segnalava “progressi”, pur rimanendo una “distanza significativa” su questioni economiche cruciali tra il management e il sindacato.

Molti commentatori “liberal” americani hanno fatto notare come il rinnovo del contratto quadriennale del settore automobilistico rappresenti – o possa potenzialmente rappresentare – un punto di svolta nella storia dei rapporti tra sindacati e compagnie, con l’opportunità a portata di mano per invertire quattro decenni di concessioni a queste ultime e il conseguente impoverimento dei lavoratori e peggioramento delle condizioni di lavoro. I fattori che hanno creato questa situazione teoricamente favorevole sono in primo luogo la necessità assoluta di adeguare salari e “benefit” all’impennata dell’inflazione. Inoltre, la rabbia dei lavoratori per i livelli esorbitanti raggiunti dai compensi dei top manager e, in generale, dai profitti delle società è arrivata al culmine in concomitanza con il sensibile peggioramento del clima economico domestico e internazionale seguito alla guerra in Ucraina.

Le proposte principali di UAW prevedono innanzitutto un aumento degli stipendi del 40% entro quattro anni. L’incremento richiesto, peraltro già abbassato al 36%, è lo stesso assicurato a partire dal 2019 agli amministratori delegati delle tre compagnie, le quali hanno invece messo sul tavolo un tetto massimo del 20%, da raggiungere in quattro anni e mezzo. Un altro elemento centrale è la cancellazione dell’odiato sistema dei due livelli che da molti anni discrimina tra nuovi e vecchi assunti in termini di stipendio e “benefit”. Tra le altre condizioni avanzate da UAW spiccano la riduzione della settimana lavorativa a 32 ore e l’adeguamento all’inflazione delle pensioni degli ex lavoratori dell’industria automobilistica.

La paga base per un neo-assunto in una delle tre compagnie dell’auto USA è attualmente di 18 dollari l’ora, mentre il livello più alto previsto nel corso della carriera lavorativa arriva a circa 32 dollari. Per fare un confronto, in California è attualmente in discussione una legge che porterebbe a 20 dollari l’ora la retribuzione di partenza dei dipendenti dell’industria dei “fast-food”, tra i peggio pagati in tutti gli Stati Uniti. Il costo della vita odierno negli Stati Uniti, specialmente nelle grandi città, rende molto difficile sopravvivere dignitosamente con questi stipendi.

In prospettiva storica, alcuni dati di una recente indagine danno un’idea ancora più chiara del deterioramento delle condizioni retributive a partire dall’abbandono definitivo da parte dei sindacati del ruolo di rappresentanti degli interessi dei lavoratori. Tra il 1978 e il 2022 lo stipendio medio dei lavoratori americani è cresciuto di appena il 15%. I compensi dei massimi dirigenti delle più importanti società è invece letteralmente decollato, aumentando del 1.209%. Solo per citare un altro dato interessante della ricerca, l’anno scorso il rapporto tra i compensi degli amministratori delegati delle principali 350 società quotate negli USA e lo stipendio medio dei lavoratori è stato di 344 a 1. Nel 1965, ad esempio, il rapporto era di 21 a 1.

Il commento tipico degli ambienti anti-sindacali è che General Motors, Ford e Stellantis non possono permettersi di sostenere un aumento così importante delle retribuzioni dei loro dipendenti, pena la perdita di competitività sui mercati internazionali. I numeri raccontano tuttavia un’altra storia. Un’analisi della trattativa sindacale in corso, pubblicata nei giorni scorsi dalla rivista on-line Counterpunch, ha elencato alcuni dei motivi per cui le “Big Three” hanno oggi tutte le risorse per venire incontro alle richieste dei lavoratori.

Per cominciare, le tre compagnie hanno registrato profitti complessivi pari a 250 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni e, infatti, dal 2019 ad oggi, come già ricordato, i compensi dei rispettivi “CEO” sono aumentati in media del 40%. Allo stesso tempo, in questo periodo sono stati spesi 80 miliardi di dollari in dividendi agli azionisti e nel riacquisto di proprie azioni (“Buyback”). Counterpunch ricorda anche come le tre compagnie avessero ricevuto dal governo qualcosa come 80 miliardi di dollari in contributi durante la crisi del 2008-2009. Dieci anni dopo, l’amministrazione Trump avrebbe poi fatto un altro regalo nel quadro della “riforma” fiscale del 2018 che ha tagliato le tasse soprattutto a corporations e redditi più alti per un totale di 4.500 miliardi in un decennio.

La crisi sanitaria durante la pandemia aveva determinato un altro esborso consistente di denaro pubblico, finito anche in questo caso in buona parte alle grandi compagnie sotto forma di sussidi e sgravi fiscali. Non va infine dimenticato che l’amministrazione Biden ha stanziato altre decine di miliardi di dollari in contributi per la transizione verso le auto elettriche che, a livello teorico, potrebbero essere utilizzati come elemento di pressione sulle stesse compagnie nell’ambito delle trattative per il rinnovo del contratto in corso.

Non è comunque da escludere che General Motors, Ford e Stellantis possano accettare concessioni relativamente consistenti, in primo luogo per evitare una radicalizzazione dei lavoratori, da tempo tutt’altro che entusiasti delle modalità corporativiste con cui operano le sigle sindacali. Un’altra ragione ha a che fare proprio con la trasformazione dell’industria automobilistica e l’espansione dei veicoli elettrici. Quello che le compagnie perderanno in termini di risorse da destinare ai lavoratori potrebbe cioè essere recuperato con la drastica riduzione della forza lavoro nel prossimo futuro, determinata appunto dal passaggio all’elettrico. D’altra parte, lo stesso “CEO” di Ford, Jim Farley, in un’intervista dello scorso anno aveva pronosticato, in vista della transizione all’elettrico, l’eliminazione del 40% degli occupati nel settore auto.

Per quanto riguarda infine i risvolti politici della trattativa sul rinnovo del contratto di lavoro, la visita di Biden martedì in Michigan ha poco a che fare con la difesa dei diritti dei lavoratori e molto con ragioni di carattere elettorale. Il presidente americano continua a dichiararsi il primo sostenitore di sindacati e lavoratori, ma i fatti contano più delle dichiarazioni. Il Biden che dovrebbe aiutare la causa dei lavoratori è lo stesso che l’anno scorso aveva forzato un accordo al ribasso per i ferrovieri americani e, una volta respinto da questi ultimi, aveva ottenuto l’intervento dal Congresso per vietare di fatto gli scioperi in questo settore e fare approvare ugualmente l’accordo.

Nell'ambito invece automobilistico, Biden era il vice di Obama quando nel 2009 venne imposta la ristrutturazione forzata del settore, con la conseguente eliminazione di migliaia di posti di lavoro e il consolidamento del sistema che penalizza fortemente i neo-assunti. Né Biden né il Partito Democratico hanno quindi a cuore gli interessi dei lavoratori, ma ostentano i loro finti scrupoli solo per garantirsi la tradizionale base elettorale sindacale.

Una fetta di elettorato che è peraltro a serio rischio di spostamento, come accadde nelle elezioni del 2016, quando una parte considerevole del voto operaio nel Midwest venne dirottato su Donald Trump. Un Trump che ha infatti annusato l’opportunità rappresentata dalla crisi economica, dalle rivendicazioni dei lavoratori e dall’impopolarità di Biden e dei sindacati per andare all’attacco e sfidare il presidente in carica inserendosi anch’egli opportunisticamente nelle vicende dello sciopero e del negoziato per il nuovo contratto tra UAW e le “Big Three”.

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