Il bombardamento israeliano di un ospedale a Gaza nella giornata di martedì è stato finora il culmine della campagna militare al limite del genocidio del regime di Netanyahu contro i palestinesi e ha subito provocato un’ondata di indignazione e proteste nei paesi arabi e tra le popolazioni di quelli occidentali. Per la gravità del bilancio ancora parziale – circa 500 civili sono stati massacrati, di cui poco meno della metà bambini – questo episodio potrebbe diventare un punto di svolta di un conflitto sempre più vicino a esplodere in una guerra regionale che, oltre a risultare disastrosa per numero di vittime, minaccia di trasformarsi in un boomerang sia per gli Stati Uniti che per lo stato ebraico.

 

Che si tratti di un “errore” o di un atto deliberato, l’attacco missilistico contro l’ospedale Al-Ahli è la logica conseguenza della “punizione collettiva” che Israele sta somministrando ai palestinesi in risposta all’operazione inaugurata una decina di giorni fa da Hamas. Uguale responsabilità dell’ennesima strage di civili va attribuita agli Stati Uniti e ai loro alleati europei, nonché alla gran parte dei media ufficiali, impegnati fin dall’inizio del conflitto a giustificare e facilitare i crimini di Israele.

Netanyahu e il suo entourage hanno provato ad attribuire la colpa dell’accaduto alla resistenza palestinese, puntando il dito contro la Jihad Islamica (PIJ) che avrebbe lanciato per errore un proprio missile sull’ospedale gestito a Gaza dalla chiesa Anglicana. In rete sono emerse però subito prove convincenti del fatto che l’ordigno responsabile della strage sia un missile JDAM israeliano, mentre è evidente che le forze di resistenza palestinese non dispongono di armamenti in grado di causare simili livelli di distruzione.

Israele ha anche pubblicato un audio che riporterebbe un dialogo tra due membri di Hamas intenti a discutere il presunto “errore” di lancio che ha provocato il disastroso incidente. Anche in questo caso, fonti palestinesi hanno facilmente smentito la tesi israeliana, segnalando che si tratta con ogni probabilità di una conversazione messa in piedi appositamente per scagionare Israele o, tutt’al più, di una discussione sull’accaduto tra due persone comuni di lingua araba.

Una sorta di ammissione di colpa semi-ufficiale da parte di Israele era peraltro arrivata subito dopo il bombardamento. Il portavoce del premier israeliano, Hananya Naftali, aveva pubblicato un post su X (ex Twitter) affermando appunto che le forze israeliane avevano colpito l’ospedale Al-Ahli, dove a suo dire si nascondevano armi e combattenti di Hamas. Naftali ha poi cancellato il post poco più tardi, per sostituirlo con un messaggio di scuse per l’errore nell’attribuirne la responsabilità a Israele.

Il contesto in cui la strage è avvenuta lascia pochi dubbi sull’assenza di qualsiasi scrupolo del regime sionista. Il disastro umanitario generale causato da quasi due settimane di bombardamenti a Gaza è tristemente noto. Nello specifico che riguarda la strage di Al-Ahli, va ricordato che poco prima che il missile cadesse sull’ospedale era stata colpita anche una scuola dell’ONU nelle vicinanze del campo profughi di Al-Maghazi che, secondo gli stessi funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA, era stata chiaramente segnalata alle autorità israeliane come struttura civile.

Per quanto riguarda invece le strutture sanitarie, questa settimana l’OMS ha reso noto che 11 di quelle attive a Gaza sono state prese di mira dalle bombe dello stato ebraico, così come 60 ambulanze, mentre finora sono stati uccisi almeno dodici operatori sanitari. Fino a martedì, dei 23 ospedali di Gaza ben 20 erano in grado di offrire solo “servizi parziali” a causa della carenza di energia elettrica seguita al blocco imposto da Israele.

In questo quadro, l’amministrazione Biden, almeno a livello ufficiale, continua a garantire il pieno appoggio al regime di Netanyahu, come conferma l’invio nel Mediterraneo di due portaerei e di altri duemila soldati in Medio Oriente, anche se non per incarichi di combattimento. Lo stesso presidente americano è arrivato mercoledì in Israele, dove ha nuovamente ribadito che Washington resta al fianco di Tel Aviv e, in una conferenza stampa, si è detto certo che a colpire l’ospedale di Gaza martedì è stata “l’altra squadra”, ovvero Hamas e la Jihad Islamica.

È del tutto possibile e coerente con i precedenti storici che gli Stati Uniti stiano cercando di evitare un’ulteriore escalation dello scontro facendo pressioni su Israele. Tuttavia, l’evolversi dei fatti conferma per ora due dinamiche molto chiare. La prima è la complicità di fatto degli USA – e dell’Europa – nei crimini di guerra israeliani. La seconda l’incapacità americana di valutare le conseguenze di un possibile allargamento del conflitto e, nel contempo, i riflessi che avrebbe sulla stessa posizione di Washington in Medio Oriente.

Riguardo quest’ultima circostanza è sufficiente osservare la furiosa reazione provocata, da Amman a Beirut, da Istanbul a Tunisi, dal bombardamento dell’ospedale di Gaza. Se qualche minima speranza rimaneva di convincere l’opinione pubblica araba e internazionale della natura terroristica di Hamas e, quindi, delle responsabilità della resistenza palestinese nel conflitto in corso, la strage di martedì l’ha spazzata via definitivamente.

La natura criminale del regime sionista e dei suoi sponsor americani è un dato acquisito e provato dal massacro di centinaia di donne e bambini palestinesi. Dal punto di vista strategico, i fatti di questi giorni allontanano inoltre in un futuro indeterminato quella normalizzazione dei rapporti tra Israele e paesi arabi che gli Stati Uniti hanno cercato di promuovere in tutti i modi, perché considerata uno strumento cruciale per tornare a essere la potenza egemone in Medio Oriente ed escludere dai giochi che contano Russia, Cina e Iran. Se l’opportunismo dei regimi arabi potrebbe in teoria assicurare ancora una pacificazione con Tel Aviv, la rabbia che le popolazioni arabe stanno accumulando con la guerra in corso renderà improbabile ancora per molto tempo l’implementazione degli Accordi di Abramo.

L’altro fattore da considerare è il rischio dell’apertura di un secondo fronte del conflitto, che coinvolga cioè Hezbollah e forse l’Iran. Non è del tutto chiara quale sia l’opinione dell’amministrazione Biden o degli stessi israeliani a questo proposito, ma è evidente che gli ambienti più radicali a Washington e Tel Aviv spingono per sfruttare la situazione di crisi e arrivare a un regolamento di conti definitivo con le componenti più formidabili della “resistenza”.

Scambi di missili e uccisioni da entrambe le parti si registrano da giorni al confine tra Libano e Israele, mentre la Repubblica Islamica continua a mandare messaggi di avvertimento espliciti a Israele. Il problema per Biden e Netanyahu è che lo scivolamento in una guerra totale in Medio Oriente non comporterebbe automaticamente la sconfitta di Hezbollah e Iran. Anzi, un’avventura di questo genere rischia di rendere l’umiliazione subita in Afghanistan e nella stessa Ucraina poco più di una passeggiata.

Dubbi e perplessità circolano comunque sia a Washington sia a Tel Aviv. Basti pensare al continuo rinvio dell’offensiva di terra a Gaza da parte israeliana, motivata a livello ufficiale prima dalle cattive condizioni meteo e poi dalla visita di Biden in Israele. I vertici delle forze armate sioniste e del governo Netanyahu stanno piuttosto valutando i serissimi rischi a cui si andrebbe incontro nell’affrontare una guerriglia urbana a Gaza, oltretutto con la minaccia di un intervento di Hezbollah.

Nei calcoli americani e israeliani entrano infine anche gli obiettivi parzialmente divergenti tra i due alleati, come ha spiegato un’analisi pubblicata martedì dal sito libanese in lingua inglese The Cradle. Entrambi i paesi puntano ovviamente a sradicare l’influenza di Hamas da Gaza, ma, spiega l’autore dell’articolo, in seconda battuta gli USA intendono ridare legittimità all’Autorità Palestinese, mentre Israele vuole niente di meno che l’espulsione dei palestinesi dalla striscia.

Resta da vedere se le manovre diplomatiche in corso che, eccezionalmente, vedono impegnati simultaneamente Arabia Saudita e Iran daranno qualche frutto prima che Israele lanci un’invasione di terra a Gaza. A quel punto, per Washington non ci sarebbe alternativa che continuare ad appoggiare il regime sionista. Un sostegno, quello a Netanyahu, che potrebbe costare molto caro agli Stati Uniti, con le basi americane in Medio Oriente a portata di tiro delle forze di tutto l’arco della resistenza.

Il risultato, oltre a un’escalation di stragi e violenze, rischia di essere un nuovo, e questa volta forse fatale, ridimensionamento del ruolo americano nella regione, se non su scala globale. Uno scenario che costituirebbe un messaggio inequivocabile per Russia e Cina, già di fatto le voci internazionali più razionali e responsabili nel tentativo di gettare acqua sul fuoco di un conflitto interamente attribuibile alle politiche criminali dello stato ebraico e alla complicità dei suoi alleati in Occidente.

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