Il governo iraniano ha fatto questa settimana un passo significativo verso il coinvolgimento diretto nel conflitto di portata sempre più vasta che sta infiammando il Medio Oriente a causa della brutale aggressione di Israele contro la striscia di Gaza. Teheran ha infatti risposto tra lunedì e martedì agli attacchi terroristici che nelle scorse settimane avevano provocato oltre cento vittime entro i propri confini, colpendo vari obiettivi in Siria, Iraq e Pakistan.

Se si considera il quadro generale della crisi in corso, l’iniziativa della Repubblica Islamica segna la mobilitazione a favore dei palestinesi dell’ultimo e più importante componente dell’Asse della Resistenza dopo i fatti del 7 ottobre scorso. Oltre a Hamas, sono com’è noto già impegnati contro le forze dello stato ebraico e i suoi più stretti alleati, sia pure con modalità differenti, Hezbollah in Libano, Ansarallah (“Houthis”) nello Yemen e le milizie sciite filo-iraniane in Iraq.

 

Se Israele e l’Occidente descrivono questi attori come pedine controllate interamente dall’Iran, la realtà appare più sfumata. Alcuni commentatori indipendenti fanno notare che i vari membri della “Resistenza” agiscono con un certo livello di coordinazione e condividono l’ideologia anti-coloniale, anti-americana e anti-sionista, ma mantengono ognuno una propria autonomia di manovra. Questo stato di fatto lo ha confermato in larga misura anche l’intelligence americana. Nei giorni scorsi il New York Times ha scritto che le analisi di Washington non hanno fatto emergere elementi che dimostrino il controllo degli Houthis da parte iraniana.

Tornando alla decisione di questa settimana dei vertici della Repubblica Islamica, lunedì sono stati lanciati missili balistici in territorio siriano contro installazioni dello Stato Islamico (ISIS), l’organizzazione terroristica materialmente responsabile del recente attentato nella città iraniana di Kerman durante una commemorazione dell’assassinio da parte americana nel gennaio 2020 del generale dei Guardiani della Rivoluzione, Qassem Soleimani. L’altro gravissimo atto terroristico era avvenuto invece a metà dicembre contro le forze di polizia iraniane a Rask.

Altri ordigni sono caduti martedì sulla capitale del Kurdistan iracheno, Erbil. Qui, i missili dei Guardiani della Rivoluzione hanno colpito alcuni edifici, tra cui quello che è stato definito come il quartier generale dell’intelligence nemica, ovvero il Mossad israeliano, da dove venivano presumibilmente organizzati attacchi in Iran. In particolare, è stata distrutta l’abitazione dell’imprenditore curdo, Peshraw Dizayee. Quest’ultimo, rimasto ucciso nel bombardamento, era legato ai servizi di Tel Aviv e risultava coinvolto nell’affare della vendita di petrolio curdo a Turchia e Israele.

Il governo iracheno ha protestato ufficialmente contro la Repubblica Islamica per quella che ha definito una violazione della propria sovranità. La nota è apparsa tuttavia poco più di un atto dovuto, visto che settori importanti dell’apparato politico e militare dell’Iraq sono più o meno allineati agli interessi strategici dell’Iran e, in ogni caso, i rapporti tra Baghdad e la regione autonoma curda sono da tempo gelidi. L’Iraq si ritrova peraltro a fare i conti con la ben più invasiva attività entro i propri confini degli Stati Uniti, che continuano a ignorare la richiesta di evacuare i loro soldati dal paese e a colpire militarmente obiettivi riconducibili alle milizie sciite, di fatto integrate nelle forze armate indigene.

Uno scontro diplomatico più grave è esploso invece con il Pakistan dopo che l’Iran ha colpito sempre martedì il quartier generale del gruppo terrorista salafita Jaish al-Adl, facente parte della galassia separatista della provincia pakistana del Belucistan e attivo anche in Iran. Jaish al-Adl sarebbe responsabile del già ricordato attentato che a dicembre aveva ucciso una decina di agenti di polizia iraniani nella città sudorientale di Rask.

Così come l’ISIS, anche il separatismo del Belucistan ha rapporti ambigui con l’intelligence americana e viene utilizzato per operazioni violente volte a influenzare determinate dinamiche strategiche regionali a seconda delle necessità di Washington. Per molti, non è infatti un caso che le operazioni di gruppi come l’ISIS abbiano ripreso vigore proprio in questa fase segnata dalla mobilitazione dell’Asse della Resistenza contro Israele e Stati Uniti.

Ad ogni modo, il governo di Islamabad ha criticato duramente la Repubblica Islamica per gli attacchi nel Belucistan pakistano, che avrebbero provocato anche vittime civili. Il ministero degli Esteri ha richiamato il proprio ambasciatore a Teheran nella giornata di mercoledì, mentre ha invitato quello iraniano in Pakistan a restare nel proprio paese, dove era rientrato nei giorni scorsi.

Poco prima dell’attacco iraniano nella città di confine di Panjgur, il primo ministro ad interim pakistano, Anwaarul Haq Kakar, aveva incontrato il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, a margine del World Economic Forum in corso a Davos, in Svizzera. Dopo l’operazione, Islamabad ha sospeso tutti i vertici bilaterali in programma con i rappresentanti del governo di Teheran, mentre la portavoce del ministero degli Esteri ha spiegato che il suo paese si riserva di rispondere a un “atto illegale” condotto dal vicino occidentale.

Al di là della legittimità dell’iniziativa iraniana, la reazione del Pakistan solleva più di un sospetto sul ruolo di Washington nel fomentare tensioni e spaccature tra i due paesi vicini e all’interno della comunità musulmana. Il Pakistan è guidato da un governo filo-occidentale che, a proposito di interferenze e violazioni di sovranità, ha sostituito nel 2022 con un colpo di mano, istigato dall’amministrazione Biden, l’esecutivo del primo ministro Imran Khan sostanzialmente per il rifiuto di quest’ultimo di condannare l’intervento militare della Russia in Ucraina.

Gli eventi di questi giorni che riguardano la Repubblica Islamica sono dunque da ricondurre a quanto sta accadendo a Gaza. In primo luogo perché è altamente probabile che nei già citati sanguinosi attentati in territorio iraniano abbiano giocato un qualche ruolo USA e Israele e che essi rappresentino un avvertimento a Teheran a non intensificare l’intervento della Resistenza a sostegno dei palestinesi.

L’aggravarsi del conflitto regionale, da ultimo con l’escalation nello Yemen, e senza dubbio anche le crescenti pressioni interne hanno però spinto i leader iraniani ad agire. La risposta è stata come al solito attentamente studiata da Teheran e, in merito al blitz in Siria e in Iraq, appare chiaro il messaggio recapitato ai propri nemici a Washington e Tel Aviv. La distanza coperta dai missili iraniani a inizio settimana chiarisce come i Guardiani della Rivoluzione siano in grado di raggiungere qualsiasi obiettivo in Israele. Se cioè gli USA o lo stato ebraico decidessero di colpire direttamente in territorio iraniano, Teheran avrebbe le capacità di rispondere in maniera adeguata.

L’ex analista del dipartimento della Difesa americano, Michael Maloof, in un’intervista al network russo Sputnik ha aggiunto che, in prospettiva, l’Iran potrebbe adottare l’iniziativa catastrofica di chiudere lo Stretto di Hormuz se, ad esempio, gli USA dovessero attaccare il territorio della Repubblica Islamica. In quel caso, l’amministrazione Biden si vedrebbe costretta a proseguire l’escalation, facendo salire il rischio di una guerra “totale”.

Sempre Maloof conclude che Washington si ritrova ora in un modo o nell’altro a “combattere su cinque fronti: Iran, Libano, Gaza, Yemen e Siria” e questo è in sostanza il prezzo da pagare per “appoggiare Israele nel genocidio” dei palestinesi in corso nella striscia.

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