Nell’arco di due giorni e nell’immediata vigilia delle elezioni parlamentari, la giustizia pakistana ha emesso altrettante pesantissime sentenze contro il popolare ex primo ministro, Imran Khan. Quest’ultimo era stato deposto nell’aprile del 2022 da un voto di sfiducia favorito dall’intervento del governo americano, allarmato per l’indirizzo di politica estera sempre più indipendente deciso dall’ex star del cricket pakistano. Il caso politicamente più rilevante riguarda proprio le circostanze del caos che aveva preceduto il golpe di fatto contro Imran e il suo governo. L’ex premier era accusato di avere rivelato il contenuto di un documento diplomatico segreto, a suo dire testimonianza incontrovertibile delle interferenze degli Stati Uniti per pilotare le vicende politiche del Pakistan.

 

Il documento in questione sarebbe stato in seguito diventato di dominio pubblico, confermando le accuse di Imran. Nel “cablo” si citava una discussione tra i rappresentanti dei due paesi, con l’assistente al segretario di Stato USA per l’Asia centrale e meridionale, Donald Lu, che esprimeva le preoccupazioni di Washington per le aperture di Imran alla Russia. Alla Casa Bianca aveva fatto particolare effetto, dal punto di vista simbolico e non solo, il fatto che l’allora primo ministro pakistano si trovasse in visita a Mosca il giorno dell’inizio della “operazione militare speciale” russa in Ucraina.

Lu spiegava come negli Stati Uniti e in Europa ci fosse preoccupazione per la scelta di Islamabad di tenere una posizione “aggressivamente neutrale” sulla crisi ucraina. Lo stesso diplomatico americano faceva poi riferimento al voto di sfiducia che si stava preparando in parlamento e se il risultato fosse stato la caduta del governo, “tutto sarebbe stato perdonato”. L’amministrazione Biden avrebbe infatti considerato sola responsabilità di Imran Khan la decisione di visitare Mosca in un momento così delicato.

L’ex premier non aveva esitato a puntare il dito contro gli USA per il complotto ai suoi danni. La sua sorte era stata però segnata dalla denuncia contro i vertici militari pakistani, responsabili di avere collaborato con Washington per rovesciare il suo governo. Imran e gli alti ufficiali del Pakistan erano ai ferri corti a causa di una disputa sulla nomina del numero uno dei servizi di intelligence e per il relativo sganciamento strategico dagli Stati Uniti che l’allora primo ministro stava studiando.

I militari, oltre ad avere legami molto stretti con Washington, sono tradizionalmente arbitri delle vicende politiche del paese e hanno essi stessi governato direttamente il Pakistan per buona parte della sua storia. Nel 2018 avevano appoggiato proprio l’ascesa politica di Imran Khan, vincitore nelle elezioni con il suo partito “Pakistan Tehreek-e-Insaf” (PTI) grazie anche ai guai legali, verosimilmente orchestrati dai militari stessi, in cui era precipitato il premier uscente Nawaz Sharif.

Dopo il colpo di mano della primavera 2022, i sostenitori di Imran e del PTI avevano inscenato una serie di manifestazioni di protesta. Il sistema di potere politico, militare e giudiziario si era allora scatenato contro la rivolta, implementando una serie di misure repressive per ridurre al silenzio l’ex premier e cercare di liquidarlo definitivamente come forza politica nazionale di primo piano. Da allora, Imran ha dovuto affrontare qualcosa come 150 cause legali, finendo più volte in carcere per essere poi scarcerato e tornare definitivamente dietro le sbarre. In parallelo, una vera e propria censura si è abbattuta sullo stesso ex primo ministro e il suo partito, mentre le tensioni scatenate nel paese dalla crisi politica avevano portato anche a un attentato a cui era a malapena sfuggito.

La prima sentenza di questa settimana è stata emessa martedì al termine di un processo tenuto a porte chiuse nel carcere dove Imran è detenuto a Rawalpindi. Quest’ultimo, assieme all’ex ministro degli Esteri e suo alleato Shah Mahmood Qureshi, è stato condannato a dieci anni ed entrambi saranno anche esclusi da tutte le cariche pubbliche per cinque anni.

I legali di Imran e Qureshi hanno contestato duramente le condizioni in cui è stato condotto il processo. Il giudice aveva ad esempio assegnato difensori d’ufficio senza consultare gli imputati e, in seguito, agli avvocati era stato negato il diritto di contro-interrogare i testimoni. Un commento della testata pakistana in lingua inglese Dawn ha ricordato le varie anomalie del procedimento, tra cui i tempi insolitamente rapidi per arrivare al verdetto. Il tribunale superiore a quello che si è appena pronunciato contro Imran, cioè l’Alta Corte di Islamabad, aveva in due occasioni ordinato di rifare il processo per via delle irregolarità emerse. Ciononostante, questa volta le condizioni non sono state molto diverse e la sentenza è apparsa frettolosa, quasi come, sostiene Dawn, esistesse una scadenza per chiudere il caso.

La scadenza è evidentemente quella dell’8 febbraio prossimo, quando si apriranno le urne in Pakistan per il rinnovo del parlamento. Il PTI prenderà parte al voto, ma gravi restrizioni sono state imposte alla campagna elettorale. Oltre all’esclusione del suo leader, al partito è stato ad esempio impedito di presentarsi col proprio tradizionale simbolo, nel tentativo di renderlo meno riconoscibile ai potenziali elettori.

Una seconda sentenza è arrivata poi mercoledì per un caso separato che vedeva Imran Khan alla sbarra assieme alla moglie, Bushra Bibi, con l’accusa di non avere restituito allo stato i regali ricevuti durante le visite ufficiali all’estero in veste di primo ministro. Imran e la consorte avrebbero contravvenuto alla legge che impone appunto di consegnare questo genere di omaggi che vengono scambiati durante i vertici bilaterali. In alternativa, il sistema pakistano richiede che venga corrisposto al Tesoro il valore degli oggetti che non risultano restituiti. Secondo l’accusa, Imran avrebbe in alcuni casi versato importi inferiori all’effettivo valore, per poi rivendere i beni in questione a una cifra superiore, intascando i relativi profitti.

Per la stampa indigena, si tratta di una pratica comune a molti politici pakistani, ma solo nel caso dell’ex primo ministro è esploso un vero e proprio scandalo mediatico, a conferma della strumentalizzazione politica della vicenda. In ogni caso, Imran Khan e la moglie sono stati condannati a 14 anni di carcere per questo reato, oltre a vedersi esclusi dagli uffici pubblici per 10 anni e a ricevere una multa salata.

L’ex premier resta il politico con il maggior seguito in Pakistan ed egli stesso ha sfruttato le molte cause legali per denunciare la persecuzione a cui sostiene di essere sottoposto e rafforzare la sua popolarità. La coincidenza delle due sentenze con le imminenti elezioni, da cui Imran è escluso, ha fatto perciò salire il rischio di un aggravamento delle tensioni sociali nel paese. I leader del PTI hanno invitato i propri sostenitori ad astenersi da manifestazioni di protesta e violenze, senza dubbio per non incorrere nella repressione delle forze di sicurezza, ma in parte anche per il timore che la situazione possa sfuggire di mano in un paese già in piena crisi economica. Molti esponenti del partito di Imran hanno fatto un appello agli elettori perché dimostrino il loro sostegno all’ex primo ministro e l’opposizione alle sentenze recandosi ai seggi e votando in massa per il PTI.

Tra la campagna mirata condotta da militari e magistratura e lo scoraggiamento per l’impossibilità di cambiare il sistema dall’interno, è probabile però che le forze politiche tradizionali riescano a contenere l’avanzata del PTI. Il più volte ex primo ministro Nawaz Sharif viene dato infatti come favorito, dopo che egli stesso si è lasciato alle spalle seri guai giudiziari, verosimilmente grazie a un accordo con i militari pakistani.

I problemi che si presenteranno al nuovo governo dopo il voto saranno comunque enormi sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Con una parte della popolazione che continua a vedere in Imran Khan il riferimento per cambiare la realtà del paese, i militari e i loro riferimenti politici dovranno gestire le tensioni domestiche e le scosse del riassestamento strategico in corso in Asia centro-meridonale. Il Pakistan è uno storico alleato degli Stati Uniti, ma intrattiene rapporti estremamente cordiali con la Cina e ha fatto registrare recentemente un certo avvicinamento anche alla Russia.

Durante il governo di Imran Khan, Islamabad sembrava avere intrapreso la strada verso l’integrazione nelle dinamiche multipolari promosse da Mosca e Pechino, ma la spregiudicatezza con cui questa svolta strategica era stata perseguita ha scatenato la reazione dei militari e di Washington. Le sirene del “Sud Globale” continueranno a rappresentare un fattore nella politica estera pakistana nel prossimo futuro, anche se a prevalere sarà una certa cautela per evitare di rompere gli equilibri strategici consolidati.

Che la classe dirigente tradizionale sia in grado di tenere sotto controllo la situazione in presenza di sfide così impegnative è in forte dubbio. Anche dal carcere, Imran Khan resterà da parte sua il fulcro dell’opposizione, in attesa dell’esito dei ricorsi già annunciati contro le condanne appena emesse. Nel frattempo, saranno le urne e i poteri forti pakistani, primi fra tutti i militari, a decidere dell’immediato futuro del travagliato paese dell’Asia meridionale.

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