di Cinzia Frassi

"Ogni nazione indipendente ha il diritto di perseguire i criminali condannati per un crimine in base alle proprie leggi e qualsiasi interferenza esterna rappresenta un’ingerenza negli affari interni", ha detto Mohammad Ali Hosseini, portavoce agli Esteri di Teheran, ma le stesse parole potrebbero venire da qualsiasi altro Paese. Per quanto riprovevole, l’affermazione del portavoce iraniano risulta un principio irrinunciabile per ogni paese, occidentale e non, nelle relazioni internazionali. La comunità internazionale si fonda proprio su questo dogma che declina i comportamenti di ogni Stato: la sovranità di ciascun Paese resta intatta davanti a qualsiasi ingerenza esterna. E anche il rispetto dei diritti umani diventa, in definitiva, una prerogativa nazionale. Perciò assistiamo spesso a battaglie nobili su temi importantissimi come i diritti umani, l’ambiente, le risorse naturali e il loro sfruttamento, che diventano questioni annose e che molto spesso finiscono con lo stagnare senza risultati apprezzabili. Gli attori delle relazioni internazionali sono governi che portano avanti la loro politica economica, i loro interessi particolari, la loro ideologia. Per questo l'evoluzione della comunità internazionale è tanto lenta: per contemperare quella sovranità nazionale con gli ideali di una convivenza internazionale di pace e di rispetto dei diritti umani, serve un'evoluzione omogenea, corale, condivisa e tale da riuscire superare nel tempo gli interessi economici e politici di ciascun membro. Per quanto annose, estenuanti e scoraggianti quelle sui diritti umani sono battaglie sicuramente da combattere per le quali per giunta risulta determinante il contributo della società civile, delle organizzazioni non governative, dei movimenti nazionali.

Ne è esempio incoraggiante la campagna contro le mine antiuomo, con i suoi 122 paesi che nel 1997 ad Ottawa hanno aderito al Trattato e che nel 2004 contava 152 aderenti. Assenti le firme di Stati Uniti, Russia, Cina, India, Israele, Turchia, Iran, Pakistan.

Il tema della sovranità nazionale è una carta che molti paesi hanno giocato e che giocheranno anche in occasione dell’importante appuntamento nella sessione autunnale al Palazzo di vetro per la discussione e votazione della moratoria universale delle esecuzioni capitali. Memori dell'insuccesso nel 1994, la partita si giocherà con molta prudenza e attenzione soprattutto per le probabili contromisure che metteranno in campo quei paesi che per tradizione applicano la pena di morte, sia coloro che lo fanno nella pubblica piazza sia chi invece in maniera più discreta.

Va sottolineato che nel tentativo andato in fumo nel '94, la risoluzione non raccolse i voti di ben 20 paesi dell’UE. Nel '99 andò peggio: secondo Francesco Paolo Fulci, all’epoca ambasciatore italiano all’Onu, nell’imminenza della votazione, "giunse l’ordine di sospendere qualsiasi iniziativa". In seguito, nel 2003, fu il contributo dilatorio del governo Berlusconi a mandare a monte l'iter della proposta di moratoria.

Venendo ai giorni nostri, la campagna targata Massimo D'Alema per la moratoria all’applicazione della pena di morte, ha raccolto lo scorso giugno il consenso unanime dei ministri degli Esteri europei, con l'incoraggiante risultato che la proposta verrà presentata nell'annuale sessione ordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a nome dell’Unione Europea nel suo complesso. Una tappa importante che a quanto sembra potrà contare, sulla base dei contatti diplomatici degli ultimi mesi, sull’adesione di 97 paesi in aree diverse del mondo. Ci sono inoltre paesi come il Sudafrica, la Repubblica del Congo, l’Azerbaijan e i Tagjikistan che hanno dichiarato ufficialmente di voler sponsorizzare la risoluzione.

Per questo la dichiarazione del portavoce iraniano circa le recenti esecuzioni suona come un avvertimento e arriva quasi come un fulmine a ciel sereno. La replica della Farnesina esprimeva la "forte inquietudine italiana" per le esecuzioni iraniane: si conterebbero ben 149 esecuzioni capitali dall’inizio dell'anno, molte in pubblico e riguardanti reati quali rapina, consumo di bevande alcoliche o atti contro la moralità.

Secondo il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Mohammad Ali Hosseini, la stampa occidentale si sarebbe scatenata unicamente per motivi politici, riferendosi alle esecuzioni di alcuni giornalisti. In particolare si trattava delle condanne emesse il 16 luglio scorso ai danni di due giornalisti curdi, Adnan Hassanpur e Abdolvahed ‘Hiwà Butima. Cautamente la Farnesina esprimeva la sua "viva preoccupazione" e il portavoce rispondeva polemicamente che "le sentenze emesse dalla magistratura iraniana riguardano la violazione della legge e non hanno nulla a che fare con l’appartenenza etnica, la professione o la carica" dei condannati.

Secondo gli utlimi dati di Amnesty International, aggiornati a gennaio 2007, sono 88 i paesi che hanno abolito la pena di morte per ogni reato, 11 i paesi che la prevedono ancora ma solo per reati particolari e 29 gli abolizionisti de facto. Nel 2006 sono state eseguite 1.591 condanne a morte in 25 paesi, per parlare solo di quelle conosciute. Il 91 per cento delle esecuzioni è avvenuto in Cina, Iran, Pakistan, Iraq, Sudan e Usa. Il primato del patibolo spetta alla Cina con almeno 1.010 esecuzioni, dato che non può essere considerato attendibile perché i dati ufficiali rimangono un segreto di Stato. L'Iran avrebbe messo a morte 177 persone, il Pakistan 82, Iraq e Sudan 65 e gli Stati Uniti 53.

Pur condividendo un pervicace ottimismo per la partita della moratoria al boia e il suo profetizzato successo in Assemblea Generale, resta da considerare che dovremo comunque scrivere un punto di domanda sui risultati concreti ed effettivi, non essendo vincolante per i singoli Stati membri. Il fatto è che solo una riforma delle Nazioni Unite potrebbe intervenire sul tema, soprattutto per quanto riguarda le prerogative del Consiglio di Sicurezza. Il problema è che tale riforma dovrebbe essere varata da un lato per mano di chi utilizza i diritti umani come iniziativa politica per regolare conti con paesi considerati ostili e, dall'altro, chi rivendica la non ingerenza si difende dal'accusa di violazione dei diritti umani proprio indossando – a volte legittimamente, a volte no - la maschera della sovranità nazionale. Non c'é da stare allegri.

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