di Daniele John Angrisani

Nel corso della sua breve storia, ed in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale, Washington D.C. è stata sempre meta di politici di oltreoceano che andavano in loco a mendicare l'interesse dell'Imperatore di turno per la propria causa. Nulla di strano dunque che oggi sia stato il turno del nuovo primo ministro inglese, Gordon Brown. Tra sorrisi di circostanza, abbracci e dichiarazioni sprizzanti amicizia e fedeltà tra alleati di lunga data, una cosa è risultata sicura agli occhi di tutti: chi si aspettava, ingenuamente, che Brown potesse avere una linea di politica estera diversa da quella del suo predecessore, Tony Blair, è rimasto subito deluso. Le sue promesse già naufragano dinanzi alla sua dichiarazione a seguito dell’incontro con Bush in cui ha ammesso che sì, forse le cose in Iraq davvero stanno andando per il meglio ed è prematuro parlare di un ritiro delle forze inglesi dal sud dell'Iraq. In cambio, però, entrambi i leader hanno concordato, altra grande novità politica, che l'Iran è una minaccia e c'è bisogno perciò di ulteriori e più dure sanzioni da approvare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, se Teheran non deciderà di collaborare sul suo programma nucleare. Tralasciando questi squallidi teatrini di vassallaggio politico, l'unico dato reale che si può desumere da questi ultimi mesi è che l'Amministrazione Bush ed i suoi alleati, non hanno alcuna intenzione di recedere dalle politiche che finora l'hanno caratterizzata. Nonostante la sconfitta elettorale alle elezioni di mid-term del novembre 2006, e i sondaggi che danno la popolarità del presidente Bush sempre più in picchiata (nientemeno che al 25% secondo gli ultimi dati), nonostante l'opposizione del Congresso e la rivolta di parte del suo stesso partito, in panico per la possibile sconfitta alle prossime elezioni del 2008, non vi è nulla che sembra riuscire a fermare la Casa Bianca.

In messianica attesa del rapporto del generale Petraeus, previsto per settembre, l'Amministrazione Bush ha già preso la sua decisione e ha solo bisogno di una scusa per poterla vendere all'opinione pubblica. In accordo con gli alti gradi militari del Pentagono sono stati già approvati piani segreti che prevedono la permanenza delle truppe americane in Iraq fino almeno al 2009, quindi ben oltre la fine dell'attuale presidenza. La patata bollente del disastro iracheno, ormai è deciso, sarà lasciata nelle mani del suo successore e George W. Bush potrà cosa uscire di scena a testa alta.

Nulla sembra in grado al momento di fermare realisticamente questa prospettiva. Men che meno il Congresso in mano ai democratici, che sembrano più interessati ai possibili guadagni elettorali che alla vita dei soldati americani e dei civili iracheni. Più volte infatti il Congresso ha approvato delle leggi o mozioni che prevedevano un calendario per il ritiro delle truppe dall'Iraq, ben sapendo che ogni volta la Casa Bianca avrebbe posto il veto.

Ma quando il turno delle responsabilità sarebbe dovuto realmente toccare ai democratici, essi non hanno avuto il coraggio politico di fare il passo decisivo: checché ne dica il New York Times o altri quotidiani liberal americani, i democratici avrebbero potuto ottenere il ritiro delle truppe semplicemente rimandando al mittente la proposta della Casa Bianca per il finanziamento della permanenza delle truppe medesime. L'Amministrazione Bush non avrebbe avuto in quel caso altra possibilità che ritirare le truppe il prima possibile.

Ma i democratici non hanno voluto farlo. O forse non l'hanno potuto fare, per paura di essere poi considerati come il "partito della sconfitta". Sta di fatto che sino ad ora è stata comunque la Casa Bianca ad uscirne vincente, ed a mantenere salda la propria rotta.

Ecco dunque George W. Bush affermare spavaldamente dinanzi alle telecamere che "le truppe in Iraq rimarranno ancora a lungo", e addirittura minacciare l'Iran di "dover accettare" le conseguenze se non deciderà di collaborare con la comunità internazionale (ovvero con gli Stati Uniti medesimi, secondo la dottrina dell'attuale Amministrazione). Sui media americani non ufficiali, in particolare su diversi siti internet, continuano da mesi a scorrere le ipotesi di bombardamenti mirati contro i siti nucleari iraniani e addirittura si parla insistentemente della possibilità dell'uso di mini armi nucleari tattiche a questo scopo. Dal punto di vista militare questa ipotesi ha anche un suo perchè, in quanto, in particolar modo a Naranz, le installazioni nucleari iraniane sono situate talmente in profondità che un bombardamento convenzionale servirebbe a poco per distruggerle.

Ma è certo che sarà difficile persino per una Amministrazione come quella attuale, tanto abituata alle menzogne, spiegare al mondo come sia stato necessario usare delle armi nucleari per distruggere arsenali nucleari nemici. Per non parlare delle conseguenze disastrose che la deflagrazione di un nuovo fungo atomico avrebbe, non solo dal punto di vista della radioattività nella zona colpita, ma anche su ciò che resta della credibilità americana nel mondo. A meno che, ovviamente, tutto ciò non sia reso necessario da un nuovo 11 settembre, come affermano i maligni. Ma questa è un'altra storia.

L'aggressività della Casa Bianca di Bush non è confinata però solo in questi ambiti. La decisione, esclusivamente americana, della costruzione di uno scudo spaziale sul territorio europeo ha portato l'Europa ad una situazione di tensione con la Russia, come non la si vedeva dalla fine della Guerra Fredda. Mosca ha addirittura minacciato di puntare nuovamente i propri missili contro obiettivi europei, sentendosi minacciata dal progetto americano. Eppure nessuno dei Paesi europei se l'è sentita di sfidare apertamente gli americani, sebbene nelle cancellerie della Mitteleuropa siano in molti a mormorare la loro contrarietà.

La questione con Mosca è esacerbata anche dall'insistenza degli occidentali a favore dell'indipendenza del Kosovo. La provincia serba a maggioranza albanese richiede a grande voce da anni la propria indipendenza da Belgrado, mentre il governo serbo, democraticamente eletto alle ultime elezioni, ha già fatto sapere che non riconoscerà mai il diritto del Kosovo alla propria indipendenza, sebbene sia pronto a garantirne la più ampia autonomia. La posizione della Serbia è appoggiata da Mosca, che ritiene che sia compito delle parti in causa trovare una soluzione che soddisfi entrambi, in aperto contrasto con la posizione americana.

Durante il suo ultimo viaggio europeo, l'unico Paese in cui Bush è stato accolto a braccia aperte, senza dimostrazioni di piazza a turbare la sua visita, è stato l'Albania, ed il presidente americano ha ricambiato promettendo solennemente a Tirana (e poi di nuovo in Bulgaria) l'indipendenza del Kosovo nel prossimo futuro. Tale ostinazione da parte americana non solo rischia di mettere a repentaglio per l'ennesima volta la pace nei Balcani, ma anche di causare una reazione a catena per la quale diverse regioni secessioniste dell'ex Unione Sovietica (Transdnestria e Abkhazia in primis) potrebbero dichiarare la propria indipendenza ed essere riconosciute da Mosca in spregio all'Occidente.

Ma anche questa prospettiva non basta per fermare gli americani. Così come non basta neppure il drammatico appello di Boris Tadic, il presidente democratico serbo, che ha avvisato l'Occidente che riconoscere l'indipendenza del Kosovo potrebbe mettere a rischio tutti i passi avanti fatti dalla Serbia verso la democrazia e portare di nuovo al potere gli ultra nazionalisti. Uno scenario da incubo per i Balcani, che sembravano finalmente essere riusciti a mettere nel dimenticatoio gli orrori della guerra civile degli Anni Novanta.

Di fronte a questa ostinazione, ciò che fa più paura è l'assoluta incapacità dell'Unione Europea di assumere una posizione diversa da quella americana. Che il pericolo sia quello del blocco delle relazioni con Mosca, partner strategico dell'Unione, soprattutto in prospettiva futura, o il rischio che la Serbia torni ad essere un nemico come ai tempi di Milosevic, sembra quasi che tutto ciò non interessi a Bruxelles. Anzi, ancora una volta, la politica estera europea sembra essere stata appaltata agli interessi del Pentagono.

Per l'Inghilterra di Gordon Brown e la Polonia dei fratelli Kaczinsky è la scelta più ovvia, nessuno lo mette in dubbio. Ma vale lo stesso anche per la Francia di Sarkozy o la Germania di Angela Merkel, i cui legami economici, culturali e politici con Mosca e con la Serbia sono molto più stringenti? E soprattutto, cui prodest una Unione Europea incapace di decidere di materie di così vitale importanza per il proprio futuro? La risposta è semplice, viene da se.

A Washington, c'è chi se la ride. Nell'epoca in cui anche l'esercito di una superpotenza può essere bloccato nelle sabbie del deserto iracheno, il motto "divide et impera" dimostra sempre la sua efficacia, sia all'interno che all'esterno. In attesa dell'elezione del prossimo Imperatore, Bush sa bene che potrà continuare indisturbato per la propria strada, e che nessuno sarà in grado di fermare la sua marcia. Il posto nella Storia lo attende, e poco male se nel frattempo il resto del mondo ne patirà le conseguenze. Sarà compito del suo successore, trovare la quadra del cerchio, ed assumere quelle responsabilità che il cowboy di Crawford non ha mai saputo, nè voluto, prendersi.

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