di Eugenio Roscini Vitali

In Algeria, una statistica pubblicata dal ministero degli affari interni e da quello della solidarietà ha portato alla luce una nuova drammatica realtà: negli anni che vanno dal 1994 al 1997, 1015 donne di età compresa tra i 13 e i 45 anni sono state rapite, violentate e assassinate dai gruppi terroristici algerini. Della tragica vicenda ne parla il quotidiano online Echorouk, che riporta così all’attenzione dell’opinione pubblica uno degli aspetti più dolorosi ed angoscianti della guerra civile. Lo scopo è quello di riaccendere nella coscienza della società civile, non solo in quella algerina, il ricordo di un dramma che non può e non deve essere dimenticato e che ogni giorno torna a ripetersi in altri devastati scenari. Durante le operazioni di ricerca, i militari avrebbero messo in salvo 20 donne mentre otto ragazze sarebbero state ritrovate senza vita. Per loro il dramma non è finito con le violenze e le sevizie. Le poche superstiti hanno parlato con angoscia delle difficoltà che hanno trovato nel ricominciare a vivere una vita affollata da incubi e dell’impossibilità di tornare al quotidiano. In molte hanno ammesso di aver pregato di essere uccise prima che le forze speciali dell’esercito algerino intervenissero per la loro liberazione e i centri di recupero messi a disposizione dalle autorità sono certi che la terapia psicologica non è la soluzione alle innumerevoli difficoltà a cui sono sottoposte le sopravvissute, soprattutto per coloro che hanno subito violenze da parte di più terroristi o che hanno visto uccidere i figli appena partoriti.

L’inumanità degli aguzzini non si è limitata alle sole sevizie: secondo il rapporto ministeriale, i terroristi avrebbero ucciso le rapite al solo scopo di liberarsi della loro presenza, a volte anche solo dopo pochi mesi dal sequestro. Una testimone sfuggita ai terroristi racconta dell’uccisione di donne incinte e dell’assassinio dei loro figli, molte volte frutto delle stesse violenze. Dopo l’arresto, un militante del Gruppo armato islamico (Gia) avrebbe confermato che, tra i terroristi, uccidere i bambini nati da rapporti al di fuori del matrimonio era una pratica in uso e che, in alcuni casi, l’esecutore degli atroci delitti sarebbe stato proprio il capo del Gruppo, Antar Zouabri. Anche se dal massacro venivano esclusi i bambini nati da unioni riconosciute, non è possibile dare un nome a simili brutalità; donne e bambini martiri di una mattanza che non commetterebbe neppure il peggiore degli esseri umani.

Nei primi anni ‘90 i militanti del Gia hanno adottato una logistica del sequestro legata alle necessità del gruppo, limitandosi a rapire infermiere e ostetriche, donne necessarie alle cure dei feriti o all’assistenza delle mogli dei militanti in procinto di partorire. Con il passare del tempo la cerchia degli obbiettivi si è allargata alle impiegate della pubblica amministrazione, insegnanti, studentesse, addette ai servizi di sicurezza. Per coloro che potevano essere sfruttate in lavori utili al gruppo rimaneva la speranza di sopravvivere all’incubo delle violenze, per le altre, dopo lo stupro, c’era solo la via della morte.

Tra le prigioniere che sono riuscite a tornare a casa, alcune hanno dovuto affrontare il dramma di una gravidanza non voluta, scaturita dalla rabbia selvaggia degli stupri a cui sono state sottoposte. Il loro stato ha generato, loro malgrado, una accesa controversia sulla questione dell'aborto che l'Alto Consiglio Islamico algerino, così come consentito dalla legge nei casi di pericolo per la vita della madre o di gravi rischi di salute fisica e mentale, ha risolto acconsentendo l’interruzione della gravidanza. Per le situazioni più critiche il ministero dell’educazione ha già messo a disposizione il centro nazionale di Tipaza, nei pressi della capitale, dove 50 specialiste accolgono le vittime del terrorismo e delle violenze; un altro centro dovrebbe essere aperto a Tlemcen, ad ovest di Algeri.

II crimini perpetrati dai componenti del Gia contro le donne algerine non trovano alcuna giustificazione politica. Il Gruppo islamico, braccio armato del disciolto Fronte islamico di salvezza (Fis), entra in azione nel 1992 come formazione antigovernativa che, attraverso il terrorismo, punta a trasformare l’Algeria in uno Stato islamico. Sarà il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc) - la frazione più oltranzista e radicale del Gia - a dare inizio nel 1998 ad una sanguinosa campagna di violenza contro tutti gli algerini ritenuti colpevoli di collaborare con il governo: artisti, scrittori, giornalisti, impiegati statali, studentesse che non seguono le usanze islamiche e gli stessi ex terroristi che hanno abbandonato la lotta armata.

Dal 1992, la guerra civile algerina ha causato più di 150 mila vittime, 10 mila civili sono scomparsi e migliaia sono state le persone sottoposte a torture; algerini che pesano sulle coscienze sia degli integralisti islamici sia delle forze speciali dell’esercito. Pur cambiando i soggetti, ancora oggi la società viene colpita in ogni suo aspetto, ostaggio impotente di assassini e terroristi senza scrupoli che calpestano ogni forma di diritto umano. Come in tutte le guerre, anche qui a pagare il prezzo più caro sono state le madri, le sorelle, le figlie, le mogli e le fidanzate travolte da un’ondata di omicidi senza fine; tra loro le 1050 donne svanite tra le montagne dell’Algeria.


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