di Carlo Benedetti

MOSCA. Il vertice dei leader della Russia, Cina, Kasachstan, Kirghisia, Tagikistan ed Usbechistan - che si è svolto nelle settimane scorse a Biskek, capitale della Kirghisia - ha messo in evidenza i gravi problemi della stabilità asiatica visti con l’ottica dell’organizzazione intergovernativa denominata “Shangai Cooperation Organization” (SCO). Ma a restare fuori dall’esame generale è stato proprio il paese che ha ospitato la riunione: la Kirghisia, ancora una volta relegata nella parte di Cenerentola. Brava a servire in silenzio. Ma la realpolitik di questi tempi evidenzia che stanno tornando i tempi del “Great Game” quando, nell’Asia centrale del XIX secolo, impero britannico e Russia zarista si scontravano per il controllo stategico dell’intera area. Ora, infatti, nonostante il silenzio stampa che Usa e Russia impongono su questo argomento, si vede che il “grande gioco” raggiunge la Kirghisia (lo stato indipendente dal 1991 dopo la dissoluzione dell'Urss e confinante con Kasachstan, Usbekistan, Tagikistan e Cina) e vede impegnati ancora una volta proprio due grandi paesi: gli Usa di Bush e la Russia di Putin. In ballo, per queste potenze che qui nell’Asia svolgono le loro prove di guerra fredda, c’è la ridefinizione degli equilibri e delle sfere d’influenza in un’area strategica sia dal punto di vista economico che da quello politico-militare. Washington e Mosca, infatti, vogliono rafforzare le loro presenze per portare avanti strategie di difesa e affermare le loro linee di diplomazia geopolitica nel cuore dell’Eurasia, nelle catene del Tien Shan e dei monti Ala-Tau. I motivi sono chiari. Gli Usa hanno bisogno di basi militari in loco per controllare con i loro B-52 (allineati negli hangar di Manas) un’area che li vede impegnati nella guerra in Afghanistan e per avere, di conseguenza, un punto d’appoggio (come quello di Ganci nella regione di Biskek) per altre eventuali avventure. La Russia, dal canto suo, non vuole rinunciare ad essere una potenza asiatica rivendicano così le tradizioni geopolitiche degli anni sovietici (mantenendo la sua base aerea di Kant) e basando molti dei suoi passi relativi agli interventi economici sul fatto che la piccolissima repubblica non possiede risorse petrolifere.

La Kirghisia diviene pertanto uno degli obiettivi centrali delle nuove strategie americane e russe. Tutto questo favorito da quella condizione di arretratezza che caratterizza il paese (un territorio di 198.000 kilometri quadrati, con circa 5 milioni di abitanti) che è sconvolto da faide interetniche, da un disastro finanziario che si è aperto con il crollo dell’Urss, da un calo impressionante della produzione e da nuovi e gravi “fenomeni” di integralismo islamico. Per non parlare dei problemi causati dall’arrivo incontrollato e clandestino di musulmani provenienti dal Xinjiang cinese. Il governo di Biskek si trova quindi ad aver bisogno dei grandi della terra. Riceve aiuti in dollari e sostegni di ordine diplomatico. Ma in cambio svende la sua sovranità permettendo ad americani e russi di aprire e gestire basi militari di grande importanza strategica collocate anche ai confini con la Cina.

La situazione locale è al livello di guardia, quanto a geopolitica. Perchè nonostante il governo di Biskek sia stato inglobato nella “Shanghai Cooperation Organization” si sa bene che il fine recondito dei vertici della Cina e della Russia consiste nell’estromettere gli americani dall’Asia centrale. I kirghisi per il momento assistono al gioco e ne approfittano anche per fare cassa. Tutto avviene con la benedizione del nuovo presidente Kurmanbek Bakiev che, grazie alla “Rivoluzione dei tulipani”, ha imposto il cambiamento di regime cacciando Askar Akayev e avviando un nuovo e forte autoritarismo politico: reprimendo ogni forma di ulteriore dissenso anche con un controllo serrato dei media.

Ma ora, dopo il vertice di Biskek che ha steso una cortina di silenzio sulla realtà kirghisa, sono in molti - anche qui a Mosca da dove scriviamo questa nota - a porsi domande sulle ragioni che portano la lontana America di Bush a seguire da vicino la gestione politica di Bakiev. Una delle prime risposte sta nel fatto che gli strateghi del Pentagono e della Cia hanno già da tempo messo occhi e mani sulle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. E gli obiettivi sono chiari. Perchè proprio attraverso queste nuove formazioni statali la Casa Bianca - una volta provocati i rivolgimenti interni - può ripristinare i vecchi sistemi di controllo militare, politico ed economico. E, una volta normalizzata la Kirghisia, gli americani potrebbero passare ad un programma di destabilizzazione con nuove “rivoluzioni” in Usbekistan - facendo fuori l’attuale presidente Islam Karimov - e nel Kasachstan, sostituendo il presidente Nursultan Nazarbajev con un elemento più malleabile.

Vengono fuori a Mosca, a poco a poco, le tante storie relative alla penetrazione americana nell’Asia post sovietica. Con la Kirghisia, però, che resta al centro di tutta l’operazione. In primo luogo si scoprono i nomi di quanti - per conto degli Usa - si occupano del teatro di Biskek, vero laboratorio di destabilizzazione. E subito c’è la storia dei dollari che viene rivelata anche da autorevoli organi americani come il The New York Times e il Wall Street Journal, i quali rendono noto che l'opposizione in Kirghisia ha ricevuto in questi anni un totale di 12 milioni di dollari (fondi governativi) “per sostenere la costituzione della democrazia”... Un ruolo particolare, in questa operazione, è stato svolto (e viene svolto ancor oggi) dalla “Freedom House” di Washington. E’ questa “istituzione” americana che finanzia a Biskek la stampa “indipendente”. E non è un caso che a presiedere la “Freedom House” c’è James Woolsey, ex direttore della Cia, e che tra gli altri amministratori si trovano personaggi come Zbigniew Brzezinski, l'ex segretario del commercio di Clinton Stuart Eizenstat e il consigliere della sicurezza nazionale Anthony Lake.

Un'altra delle tante organizzazioni attive nella promozione della “nuova democrazia” in Kirghisia è la “Civil Society Against Corruption”, finanziata dalla “National Endowment for Democracy” (Ned), creata durante l'amministrazione Reagan come una Cia privata per avere maggiore libertà di azione. La NED, insieme alla “Freedom House”, è stata al centro delle principali rivoluzioni colorate degli ultimi anni. E non è un segreto il fatto che il generale Wesley Clark, quello che ha diretto i bombardamenti americani sulla Serbia nel 1999, fa parte del consiglio del Ned. In questa rosa di falchi non va dimenticata l’attività del banchiere Soros che con il suo Istituto - Open Society Institute - svolge una attività chiaramente filoamericana cercando di portare la Kirghisia sempre più su posizioni antirusse ed anticinesi. Nel teatro kirghiso compaiono poi altri nomi locali e stranieri da non sottovalutare nell’esame di questa campagna americana per il controllo dell’Eurasia.

Gran parte dell’attività a favore della “Rivoluzione dei tulipani” viene svolta dalla “Human Rights Centre Citizens against corruption” nota anche come “Civil Society Against Corruption”. A capo di questa organizzazione c’è una kirghisa, Tolekan Ismailova, che figura tra gli invitati d’onore in tutti i consessi internazionali organizzati o finanziati dalla Cia. Una donna che si è attivamente impegnata nella distribuzione in Kirghisia di un manuale “rivoluzionario” già usato in Serbia, Ucraina e Georgia scritto da Gene Sharp, un personaggio che è al servizio della Cia e della Nato e che si occupa della formazione di operatori rivoluzionari in Myanmar, Lituania, Serbia, Georgia, Ucraina, Taiwan, Venezuela e Iraq.

Il libro di Sharp - che a Mosca leggiamo in russo - è una sorta di Bignami per le “rivoluzioni colorate”. Si intitola “Dalla dittatura alla democrazia” (?? ????????? ? ??????????) e contiene suggerimenti sulla resistenza non violenta. Sharp è a capo della “Albert Einstein Institution” appoggiata dall’Università di Harvard, finanziata dalla NED, dal Congresso degli Stati Uniti e dalla “Soros Foundation”. Altri personaggi sui quali la Casa Bianca punta per l’opera di ingresso nell’Eurasia sono - sempre a Biskek - Feliks Kulov e Rosa Otumbaieva. Il primo è un filoamericano, considerato come leader storico dell’opposizione kirghisa. Fu imprigionato nel 2001 dal presidente Akaev (del quale, comunque, era un commesso viaggiatore impegnato nella vendita di armi in Afghanistan, Jugoslavia, Angola) che cercava di estrometterlo dal giro dei possibili successori. Kulov è stato ministro, capo del Kgb impegnato nella repressione di usbeki e kirghisi ad Osh nel 1990 quando si verificarono gli scontri interetnici. E’ stato anche sindaco della capitale. Ora attende che la pena gli venga condonata e che venga “ripulita” la sua fedina penale. Questo gli permetterà di rientrare nella vita politica per poter poi sfidare Bakiev alle presidenziali.

Altro esponente di spicco in questa cordata filoamericana è Rosa Otumbaieva, leader del partito “Atu Jurt-Patria”. Donna intraprendente, con una rara capacità di combinare rigore analitico e impegno civile, ha alle spalle una rapida e brillante carriera. A Mosca è stata la rappresentante del ministero degli Esteri presso l’Unesco. Poi, in patria, è stata ministro degli Esteri, ambasciatrice in Gran Bretagna e all’Onu. Con questi “quadri” gli Usa pensano di fare della Kirghisia la base di lancio della loro politica asiatica.

E mentre si svolge questo grande gioco tra Russia ed Usa, la pragmatica Cina di Hu Jintao sta a guardare. Non vuole creare problemi e punta a muoversi in silenzio cercando pur sempre di avere ottimi rapporti con tutti. Lo “spirito di Shangai” (la città dove è sorta l’Organizzazione di cooperazione) sembra essere, per i cinesi, un modus vivendi per sviluppare una penetrazione soft nell’intera regione centrasiatica. Piaccia o no agli americani.


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