di Agnese Licata

Mentre s’iniziano a fare i conti dei manifestanti arrestati negli scorsi giorni - più di duemila a sentire la tv di Stato birmana - il presidente francese Nicolas Sarkozy e il suo ministro degli Esteri Bernard Kouchner si ritrovano a dover dare non pochi chiarimenti sulle posizioni assunte a proposito di un’azienda che in Birmania ci lavora da anni. Sotto accusa, in un tribunale belga, la quarta compagnia petrolifera più potente del mondo, la francese Total. In particolare, ad essere riaperto è il caso del gasdotto di Yadana, quello che dal sud di Myanmar trasporta 17 milioni di metri cubi di gas al giorno nelle centrali nella vicina Thailandia. Secondo i promotori della causa - quattro birmani rifugiati in Belgio - la ditta francese avrebbe ricorso ai lavori forzati per costruire la pipeline. Lavori forzati e torture che materialmente sarebbero state portate avanti dall’esercito birmano, lo stesso che nel Paese guida dal 1988 un regime dittatoriale, lo stesso che nelle ultime settimane tutti i governi internazionali - Francia in testa - si sono affrettati a condannare fermamente. Tutto risale agli anni Novanta, quando la Total decise di avviare la costruzione del gasdotto. Costo dell’operazione: seicento milioni di sterline. Una parte di questa cifra, ha ammesso la stessa azienda petrolifera, fu destinata all’esercito birmano, incaricato di “proteggere” il cantiere. La Total, da parte sua, si difende con la scusa più vecchia del mondo: non sapeva e non poteva sapere che i militari stavano violando, sistematicamente, i diritti umani della popolazione locale. Ma secondo gli accusatori, come anche alcune organizzazioni internazionali, la Total non sostenne il regime militare “solamente” a livello economico, ma anche fornendogli sostegno logistico. Una parziale conferma indiretta che i lavori forzati sotto controllo militare non sono un’invenzione ma un fatto realmente accaduto, viene dalla stessa compagnia che, nel 2001, ha indennizzato circa quattrocento operai birmani che avevano partecipato ai lavori del cantiere.

Voci sulle violenze subite dai lavoratori iniziarono a diffondersi all’inizio del Duemila. Così, nel 2003, la Total, per cercare di allontanare da sé un’accusa che rischiava di diventare pericolosa per la propria immagine, decide di chiamare in ballo proprio Bernard Kouchner, allora non ancora uomo politico, ma conosciuto esclusivamente per il suo impegno civile e per l’essere uno dei fondatori di Médecins Sans Frontières. Chi meglio di lui, si devono essere detti i dirigenti della Total, è in grado di tranquillizzare tutti sul modo con cui è stato costruito il gasdotto? Jean Veil, avvocato dell’azienda, propose a Kouchner di fare un viaggio di verifica nell’ex Birmania. Insieme a lui, avrebbe lavorato anche la moglie, Christine Ockrent, giornalista che tempo prima aveva intervistato la premio Nobel Aung San Suu Kyi. Costo della spedizione: 25mila euro. Investimento che alla Total è fruttato un rapporto da pubblicare prontamente sul proprio sito e in cui Kouchner scartava la possibilità che l’azienda abbia svolto “attività contrarie ai diritti dell’uomo”.

Sempre in quel rapporto, la “colomba bianca” sottolineava l’inutilità di embarghi e sanzioni economiche contro il regime birmano. Posizione esattamente opposta non solo a quella sostenuta dalla stessa Kyi, ma anche a quella del presidente francese Nicolas Sarkozy. “Facciamo appello alle società private, per esempio alla Total, a dar prova di grande prudenza per quanto riguarda gli investimenti in Birmania e chiedo che non ce ne siano di nuovi”, ha dichiarato Sarkozy alcuni giorni fa, dopo aver ricevuto uno dei leader dell’opposizione birmana, Sein Win, in esilio a Parigi.

Se il richiamo alla prudenza servirà almeno per il futuro, si vedrà. Per ora, la magistratura belga lavorerà per accertare se nella vicenda del gasdotto, uno dei fiori all’occhiello dell’economia francese ha approfittato di un regime militare e della sospensione dei diritti umani per velocizzare e ridurre i costi. Indagine che la Corte costituzionale del Belgio ha deciso di riaprire dopo che, nel 2005, la Suprema Corte d’appello aveva deciso di rigettare la causa dei quattro rifugiati birmani. Due anni prima, infatti, una riforma del codice penale aveva ristretto notevolmente la possibilità, prevista dalla legge belga, di ricorrere per violazioni di diritti umani, anche se le vittime non sono cittadini belgi.

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