di Eugenio Roscini Vitali

Per la Bosnia-Erzegovina questo potrebbe essere un anno decisivo, la conferma di un cambiamento iniziato nel secondo semestre del 2007 e che si basa su una tregua con la quale i leader politici locali hanno messo momentaneamente fine ad una crisi che sembrava poter creare le condizioni per una nuova guerra civile. I problemi che per anni hanno devastato una delle più tormentate e malate regioni del nostro continente non sono però del tutto sopiti. Per rendere possibile un progetto di pace a lungo termine è fondamentale che i partiti al potere rinuncino a quel nazionalismo estremo che da anni alimenta e infetta le velenose contrapposizioni di parte intrise di odio e desiderio di vendetta. Il susseguirsi degli eventi che dallo scorso ottobre stanno mutando la faccia politica del Paese hanno preso il via dopo una violenta crisi di governo, la più grossa dalla fine della guerra, partita con la fallita riforma della polizia ed aggravatasi dopo l’intervento dell’Alto rappresentante della comunità internazionale, Miroslav Lajcak, che ha modificato la norma parlamentare secondo cui le leggi potevano essere votate solo in presenza di tutti i deputati. Una decisione che ha scatenato la furia dei serbo-bosniaci della Republika Srpska, ai quali è comunque rimasta la possibilità di veto, ma che ha permesso allo slovacco Lajcak di superare, senza contravvenire quanto sancito dalla Costituzione, la tecnica del boicottaggio dei lavori parlamentari. La crisi si è spinta fino alla minaccia di un referendum secessionista annunciato dal premier della Republika Srpska, Milorad Dodik, alle dimissioni del primo ministro del governo centrale, il serbo bosniaco Nikola Spiric, e al rischio di una nuova guerra civile. Allo stesso tempo la frattura politica ha però rilanciato l’operazione riformatrice dell’Ufficio dell’Alto Rappresentate per la Bosnia-Erzegovina che, tra scandali più o meno presunti e promesse più o meno mantenute, aveva ormai perso credibilità e immagine agli occhi dei bosniaci.

L'accordo di Dayton stipulato il 21 novembre 1995 nella base aerea di Wright-Patterson, Ohio (Usa), ha messo fine a più di tre anni di guerra interetnica. Scoppiato nel 1992 a causa delle forte opposizione della comunità serba alla volontà indipendentista della Bosnia-Erzegovina espressa da parte della popolazione croata e musulmana, il conflitto ha causato circa 100 mila morti (65 mila musulmani , 25 mila serbi e 5 mila croati). Dal 1995 la Bosnia-Erzegovina è suddivisa in due: la Federazione di Bosnia-Erzegovina, croato musulmana con il 51% del territorio, e la Republika Srpska, serba con il 49% del territorio; dal 1998 la città di Brcko, nel nord-est del Paese, è stata dichiarata distretto autonomo sotto supervisore internazionale. Dal 2 dicembre 2004, l'applicazione della parte militare dell'accordo di Dayton è passata dalla Nato alla missione dell’Unione Europea Eufor. La parte politica e istituzionale è coordinata dall’Ufficio dell’Alto Rappresentate per la Bosnia-Erzegovina che lavora per assicurare la corretta ed efficace implementazione degli accordi di pace promuovendo e coordinando l’attività delle agenzie civili, rispettando l’autonomia delle organizzazioni locali e mantenendo uno stretto contatto con tutte le etnie.

In questi 12 anni non è stato fatto molto, soprattutto perché i meccanismi costituzionali che di solito mandano avanti i sistemi democratici occidentali in Bosnia non funzionano. Il nodo principale rimane ancora la controversa riforma della polizia, condizione fondamentale richiesta da Bruxelles per il proseguimento del viaggio della Bosnia-Erzegovina verso l’Europa, un cammino iniziato il 4 dicembre scorso a Sarajevo con la firma dell’Accordo di associazione e stabilizzazione con l’Unione Europea. In realtà, più che sottoscrivere l’accordo, il governo centrale di Sarajevo ha preso visione del contenuto di un documento che, una volta firmato, assegna al Paese lo status di candidato per l’UE. L’obbiettivo, che di fatto ha risolto la crisi politica, è stato raggiunto dopo che i leader politici locali si sono impegnati a portare a termine la riforma sulle forze di sicurezza, primo di una lunga serie di atti legislativi che dovrebbero portare ad una soluzione durevole della questione balcanica.

I dubbi sulle reali volontà espresse dalle autorità serbe e musulmane rimangono. Milorad Dodik ha sempre cercato di fare della Republika Srpska una sorta di stato nello stato, uno governo parallelo che di fatto impedisce la realizzazione di una sola Bosnia-Erzegovina. Per difendere l’autonomia serba Dodik non ha mai rinunciato ad una polizia direttamente controllata dal governo locale che protegge la frontiera della Republika Srpska da qualsiasi ingerenza esterna; sa infatti che dall’altra parte della frontiera c’è Haris Silajdzic, leader dei musulmani della Federazione della Bosnia-Erzegovina, che non rinuncerà mai al sogno di creare un solo stato, una grande Bosnia da dove venga cancellata la parola “Republika Srpska” e nel quale governi la maggioranza croato-musulmana. Il 2008 sarà quindi decisivo per capire se ci sono veramente le condizioni necessaria per portare il Paese nell’Unione Europea.

Una Bosnia-Erzegovina all’interno dell’Unione Europea sembra comunque essere più un obbiettivo della comunità internazionale che il desiderio di molti leader politici locali i quali, giocando sul fatto che l’Alto rappresentante non ha mezzi per contrastare le manipolazioni politiche, hanno tutto da guadagnare dall’immobilismo e dall’isolazionismo. In questo contesto vanno poi considerate altre importanti realtà: il quadro costituzionale nato a Dayton ha trasformato la Bosnia-Erzegovina in una sorta di semiprotettorato nel quale la leadership locale non ha alcuna responsabilità verso la popolazione; Radovan Karadzic e Ratko Mladic, i principali responsabili della tragedia balcanica, sono ancora in libertà e difficilmente verranno assicurati alla giustizia internazionale; la paralisi amministrativa impedisce l'equilibrio politico e lo sviluppo economico; l’esistenza oggettiva di situazioni anomale quali Srebrenica, un enclave vigilato dalla quella stessa polizia che partecipò al genocidio dei suoi stessi abitanti.

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