di Carlo Benedetti

Le elezioni presidenziali in Serbia si terranno domenica 20 gennaio nel pieno della crisi che sconvolge la regione kosovara. Di qui l’attenzione del mondo politico-diplomatico nei confronti di un’entità territoriale che, sino ad oggi, è parte integrante della nazione serba. Intanto Belgrado (mentre si susseguono laboriosi negoziati) affila le sue armi in vista del risultato che uscirà dalle urne. In campo sono tre i candidati degni di particolare attenzione. C’è il “moderato” Boris Tadic - attuale Presidente e leader del Partito Democratico - che può essere considerato come un esponente di un patriottismo pragmatico tutto di stampo serbo. E’ lui, infatti, che pur affermando che non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, dichiara nello stesso tempo che sceglierebbe una Serbia senza il Kosovo, ma parte della Ue, piuttosto che una Serbia senza il Kosovo, ma isolata. Tadic, nel Paese, gode di un notevole prestigio anche per il fatto che si dichiara sempre disposto ad inaugurare una nuova fase di pacificazione. Tadic è nato a Sarajevo nel 1958 e di professione è psicologo. Viene da una famiglia di un noto filosofo che porta impresso il marchio di una tragedia: i nonni furono uccisi durante la seconda guerra mondiale dagli uomini del fascista croato Ante Paveleic, gli ustascia. Si deve a Tadic la fondazione di un istituto per lo studio e lo sviluppo della democrazia e della scienza politica. A questo impegno di valore culturale e sociale è seguita una sua sempre più ferma adesione al movimento riformista dei Democratici che lo ha portato a divenire prima ministro delle Telecomunicazioni poi della Difesa. Quanto alla partecipazione alle elezioni va ricordato che al primo turno (13 giugno 2004) delle presidenziali ottenne il 27.3% delle preferenze. Nel secondo turno, il 27 giugno 2004, sconfisse nel ballottaggio Tomislav Nikolic, esponente del Partito Radicale Serbo, con il 53.24% dei voti. Infine sul piano delle sue attività a Belgrado si ricorda che è stato il primo capo di stato serbo che ha incontrato ufficialmente il papa Benedetto XVI in un viaggio del 2005 a Roma. Altro punto di rilievo che figura nell’agenda dei suoi interventi si riferisce al luglio - sempre del 2005 - quando ha partecipato alle commemorazioni ufficiali per i dieci anni dalla strage di Srebrenica per rendere omaggio “alle vittime innocenti, e dimostrare che i Serbi non approvano questo crimine contro dei musulmani".

Tadic in quella occasione ha sostenuto "la necessità di mostrare la distanza tra i criminali di guerra e i cittadini". Ma la sua partecipazione alla manifestazione provocò da una parte l'irritazione dell'associazione delle "Madri di Srebrenica", dall'altra, in Serbia, le critiche dei nazionalisti. Tadic, infine, si presenta all’appuntamento elettorale rivelando sempre più un programma basato su una linea di piena integrazione euroatlantica.

Nella lista delle presidenziali si trova poi Tomislav Nikolic (nato nel 1952 a Kragujevac), un ingegnere edile, massimo esponente del Partito radicale, impegnato a dare corpo e voce agli impulsi ipernazionali e conservatori caratterizzandosi come esponente di estrema destra. E’ Nikolic, tra l’altro, che auspica una presenza militare russa nel Kosovo che a suo parere rafforzerebbe la posizione della Serbia nella questione della contesa tra Belgrado e Pristina. E in un'intervista al quotidiano “Dnevnik” di Novi Sad, Nikolic afferma che se il Kosovo diventasse indipendente, la Serbia dovrebbe mettere in atto un blocco “totale” sui collegamenti e sui trasferimenti di persone, beni e capitali, ricordando che un'eventuale presenza di basi militari russe andrebbe comunque approvata dal parlamento.

A Belgrado di Nikolic si ricorda che nel 2000 partecipò alle Presidenziali piazzandosi terzo dopo Kostunica e Milosevic. Attualmente è Presidente ad interim del Partito radicale serbo per supplire alla forzata assenza del suo leader, l'ultra nazionalista Vojislav Seselj, arrestato e sotto processo presso il Tribunale criminale internazionale per l'ex Jugoslavia con l'accusa di aver commesso crimini contro l'umanità durante la guerra d'indipendenza. Anche Nikolic, secondo alcuni detrattori, sarebbe stato sfiorato da quelle tragiche vicende, ma queste affermazioni sulle sue responsabilità politiche non sono mai state dimostrate. Intanto a Belgrado - mentre si “rileggono” le biografie di questi due esponenti in lizza per la presidenza - si rileva che le loro posizioni sono di segno contrario e rivelano due mondi in bilico tra Europa e Balcani, che non riescono assolutamente a dialogare.

Infine in lista si trova Velimir Ilic, (nato a Cacak nel 1951) leader del “Partito popolare nuova Serbia” e ministro delle Infrastrutture, fortemente appoggiato dal premier Vojislav Kostunica. Altri candidati sono: Cedomir Jovanovic, leader del Partito democratico liberale, erede delle posizioni politiche di quel primo ministro democratico Zoran Djindjic assassinato nel marzo dello scorso anno; Milutin Mrkonjic, candidato del Partito socialista serbo, il partito che fu di Slobodan Milosevic; Isztvan Pasztor, leader della minoranza ungherese della Vojvodina dove si vanno organizzando movimenti separatisti; Milanka Karic, moglie del controverso uomo d’affari Bogoljub Karic, fuggito dalla Serbia dopo essere stato accusato di corruzione e di malversazioni; Jugoslav Dobricanin del Partito riformista e infine Marijan Risticevic del Partito popolare contadino.

C’è comunque un comune denominatore tra i candidati. Tutti si oppongono all’indipendenza del Kosovo. Ritengono la regione - de jure - come parte della Serbia, secondo quanto sancito dalla Costituzione del paese e dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, il 10 giugno 1999, pose fine ai bombardamenti Nato sulla Jugoslavia (Serbia e Montenegro). De facto, però, da quel momento, il Kosovo è un protettorato internazionale, gestito dall’Onu sul piano amministrativo (Unmik) e militare (Kfor, a guida Nato).

Ed ora mentre si attendono i risultati delle Presidenziali le considerazioni che avanzano nel mondo degli osservatori sono tutte di segno diverso e contrario. La realtà è che chiunque abbia ragione - i serbi con i loro richiami al diritto internazionale e all'integrità territoriale o gli albanesi con l'invocazione del principio di autodeterminazione su base etnico-demografica - per il Kosovo si profila un futuro estremamente incerto. A sostenerlo - tra l’altro - è uno studio dell'università britannica di Manchester, secondo cui questo estremo lembo di terra balcanica contesa si ritrova a un passo dall'indipendenza senza aver avvicinato quasi nessuno degli standard indicati a suo tempo dalla comunità internazionale come precondizioni del riconoscimento di un qualsiasi status politico definitivo.

Lo studio si concentra su tre parametri: le prospettive di convivenza etnica nella provincia; la stabilità e l'affidabilità delle istituzioni abbozzate sotto il patrocinio dell'amministrazione Onu (Unmik) negli ultimi otto anni; le condizioni socio-economiche della popolazione. E traccia su tutta la linea un quadro a tinte fosche: non più pessimistico, del resto, di quello tratteggiato alcuni mesi or sono da un rapporto clamorosamente allarmistico attribuito dopo anni di permanenza sul posto all'intelligence militare tedesca. E si sa bene che le mancate soluzioni pacifiche e le riforme sospese hanno prodotto una reale inefficienza del sistema. Ora la ricerca britannica evoca divisioni etniche persistenti, nonché disoccupazione e povertà dilaganti sullo sfondo di una struttura istituzionale dominata dalla corruzione e di un sistema economico largamente controllato da intrecci criminali mafiosi o paramafiosi. Torna nel Kosovo la minaccia dell’Uck, l’organizzazione terrorista che continua ad esistere grazie anche all’ombrello protettivo della Nato.

Il documento britannico riferisce poi di ''gravi problemi irrisolti'' o al massimo di ''progressi insignificanti''. Sul fronte dell'illusione multietnica, uno degli autori, il professor Dimitris Papadimitrou - direttore del dipartimento di Studi Europei nell'ateneo inglese, esperto di Balcani ed ex Jugoslavia - rileva che ''almeno 150.000 serbi su 250.000, vale a dire il 7% dell'intera popolazione kosovara e i due terzi della minoranza slava, sono fuggiti'' dopo i bombardamenti Nato del '99 e la 'rivincita albanese' nella provincia. Mentre i rom, tacciati collettivamente di collaborazionismo con Belgrado per il passato, risultano pressoché scomparsi. Passando all'economia, l'analisi sottolinea come solo l'Unione Europea abbia stanziato negli ultimi anni 1,1 miliardo di euro per il Kosovo (regione grande come l'Abruzzo). E che, nonostante ciò, il Pil pro-capite resti fermo attorno ai 100 euro l'anno, il più misero dell'intera area balcanica.

Il 37% della popolazione kosovara è inoltre considerata al di sotto della (bassissima) soglia ufficiale di povertà, mentre la disoccupazione pare addirittura aumentata negli anni del protettorato Onu-Nato, fino a toccare il 60% circa. Quanto infine alla corruzione e alle collusioni criminali, la ricerca le indica come fenomeni diffusi, che non risparmiano ''la polizia locale e il sistema giudiziario''. Fenomeni avvertiti acutamente anche dall'opinione pubblica albanese - come prova la partecipazione al voto di meno della metà degli aventi diritto alle ultime elezioni - e che sono giunti a sfiorare alti esponenti dell'Unmik: come l'americano Steven Schook, appena richiamato a Palazzo di Vetro a rendere conto - pare - di presunti affari poco limpidi. L’avventura kosovara, intanto, continua e si fa sempre più drammatica. Con il voto di Belgrado che annuncia uno scontro sul futuro.

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