di Giuseppe Zaccagni

Si annunciano tempi duri per Sarajevo. Perché dall’Europa di Bruxelles arrivano, firmate dal commissario all’Allargamento Olli Rehn, forti sollecitazioni per accelerare l’ “Accordo di stabilizzazione e associazione” (Asa) con l’Ue e per decidere, di conseguenza, se prolungare o meno il mandato dell'Alto rappresentante speciale, lo slovacco Miroslav Lajcak (che ha la facoltà di legiferare o destituire funzionari pubblici). Ma sulla Bosnia-Erzegovina soffia anche il vento della rivolta che arriva da Pristina. E c’è il pericolo che l’effetto domino si faccia sentire da queste parti. E tutto questo senza tener conto che la questione bosniaca è stata vista dall’occidente sempre e solo come un problema di unità militari da sciogliere ed eliminare. Si è così data pochissima importanza alle pesanti differenze culturali e religiose reputate insignificanti. Tanto da permettere tranquilli anni di lavoro ad intere equipe di agitatori e missionari di vario stampo. E di conseguenza si è arrivati, a poco a poco, all’apparizione di nuove forme di gestione politica cariche di conseguenze sempre più gravi per l’identità e la stabilità nazionale. La situazione che si preannuncia è quella di un prossimo terremoto politico-istituzionale in un paese dove gli accordi di Dayton del novembre-dicembre 1995, mettendo fine ai tre anni e mezzo di guerra, hanno contribuito a creare una struttura statale di tipo molto particolare che non ha analoghi in nessun altro sistema nel mondo. Il Paese è infatti costituito da due entità: la “Federazione BH” (a maggioranza croato-musulmana) che copre il 51% del territorio, e la “Republika Srpska” (a maggioranza serba), con il 49% del territorio. E c’è poi - dal 1998 - la città di Brcko, nel nord-est, che rappresenta un distretto autonomo. Tutto su 51.130 chilometri quadrati con una popolazione di circa 4milioni che si divide tra bosniaci-musulmani al 43,7%, serbi al 31,4% e croati al 17,3%.

E se le identità nazionali sono due, i parlamenti presenti sono tre dal momento che esiste quello “centrale” della Bosnia-Erzegovina (con 42 seggi) che ha nominato un governo sostenuto da una coalizione che include partiti nazionalisti, radicali e moderati come il musulmano Partito d'Azione Democratica (Sda), il Partito per la Bosnia Erzegovina (SBiH), il Partito Democratico Serbo (Sds), il Partito per il Progresso Democratico (Pdp) e la Comunità Democratica Croata (Hdz). Gli altri parlamenti paralleli, ma minori, sono quelli della Federazione BH (croato musulmana) e della “Republika Srpska”. Ma c’è il rischio che questa architettura istituzionale - avviata a Dayton - possa saltare in conseguenza della lezione che viene dal Kosovo.

A dare l’allarme è lo stesso rappresentante dell’Europa Lajcak, che lancia un appello per accelerare l'avvicinamento della Bosnia Erzegovina alla Ue e, di conseguenza, per evitare su Sarajevo i contraccolpi negativi di una possibile ripetizione di quanto avvenuto a Pristina. Ora, infatti, si moltiplicano le pulsioni separatiste dei serbo-bosniaci della “Republika Srpska” (Rs) che insieme alla Federazione Croato-musulmana forma, appunto, la Bosnia-Erzegovina disegnata a Dayton.

Situazione, quindi, più che mai a rischio con migliaia e migliaia di manifestanti che a Banja Luka, chiedono per la “Republika Srpska” la stessa indipendenza concessa all'ormai ex provincia serba. E come conseguenza di questa azione di piazza c’è già un pronunciamento del parlamento che ha adottato una risoluzione in cui si proclama il diritto a sottoporre a un referendum l'indipendenza dell'entità statale serbo-bosniaca. La risoluzione, intanto, è stata respinta fermamente dai capi delle missioni dei Paesi membri dell'Ue secondo i quali, in base alla Pace di Dayton, le due entità che formano la Bosnia-Erzegovina ''non hanno diritto alla secessione''.

Quanto alle cosiddette “forze di pace” presenti nel territorio della Bosnia-Erzegovina nel quadro della missione dell’Ue - “Eufor Althea” - va ricordato che c’è ancora una considerevole presenza italiana. Ci sono - dal dicembre 1995 - gli ottocento uomini della “Italfor Bosnia” e circa 400 carabinieri della Ipu, la “Integrated Police Unit”. Forza, questa, che opera in collaborazione con contingenti ungheresi, sloveni, romeni e turchi. Tutti con il compito di assicurare il rispetto degli aspetti militari dell'accordo di pace di Dayton; di contribuire a garantire la sicurezza dell'ambiente in cui operano le organizzazioni civili e sostenere, infine, le varie agenzie internazionali.

Ma se sul piano del controllo militare (da parte di quell’occidente che prima ha bombardato la Yugoslavia ed è poi corso ad occuparla) tutto può essere riportato su un livello di “normale” architettura istituzionale resta, gravissimo, il fatto che con la creazione delle due entità, la “Republika Srpska” e la “Federazione” non si è fatto altro che compiere una operazione che ha portato con sé una prevedibile degenerazione. Il mantenimento delle rappresentanze etniche ha creato, infatti, una struttura artificiale che rischia di non poter fare a meno della tutela della comunità internazionale. E quegli organi come il parlamento centrale e quello della “Federazione” sono costituiti secondo criteri di vero e proprio “razzismo istituzionale”.

E’ questo il dramma della Bosnia-Erzegovina, che si troverà a fare i conti con le spinte che arrivano dal Kosovo e che, viste le condizioni locali quanto a composizione religiosa della popolazione (musulmana sunnita,serbo ortodossa, cattolica, ebraica), non saranno di facile gestione. Per non parlare della difficile situazione economica che non è mai uscita da quello stallo dovuto al conflitto degli anni passati, ma anche al fallimento di un sistema produttivo centralizzato basato su un vero e proprio gigantismo industriale, spazzato via dalle logiche della globalizzazione.

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