di Agnese Licata

Di sorprese, alle elezioni politiche che la Spagna affronterà domenica prossima, non ne prevede praticamente nessuno. La vittoria di José Luis Rodríguez Zapatero e del “suo” Partito socialista appare scontata, guadagnata in quei quattro anni di riforme sociali ed economiche che hanno portato la Spagna a fare enormi passi avanti non solo per diritti civili, ma anche per tutele sociali e crescita economica. Difficile immaginare che dalle urne possa uscire un risultato inatteso quanto quello che nel 2004, tre giorni dopo l’attentato di Madrid, decretò la sconfitta del premier uscente José María Aznar. Anche il duello televisivo di lunedì scorso – l’ultimo della campagna elettorale – e i sondaggi successivi non hanno fatto altro che confermare la distanza tra Zapatero e lo sfidante del Partido popular, Mariano Rajoy. Un dubbio però c’è, ed è rappresentato dal margine di vantaggio che gli elettori spagnoli sceglieranno di assegnare ai socialisti. Percentuale che i vari sondaggi faticano a prevedere in modo unanime: 5, 10, addirittura 20 per cento. Negli ultimi nove mesi, del resto, le carte in tavola sono parzialmente cambiate: dopo anni di crescita superiore al 3 per cento, l’economia spagnola ha rallentato il passo. Dopo un 2007 al +3,8 per cento, le previsioni di Zapatero per il 2008 non superano il +3,1 per cento, anche se in molti – tra cui l’Economist - stimano un +2,4 per cento. Quello che comunque sembra preoccupare di più gli iberici è la disoccupazione. Nonostante un tasso dell’8,6 per cento, non altissimo in sé e per sé (soprattutto considerando il recente passato della Spagna), a pesare è il fatto che questo è tornato a salire dopo quattro anni. E poi c’è l’inflazione al 4,3 per cento, lo scoppio della bolla speculativa sugli immobili e i problemi energetici. Inevitabile che, secondo un recente sondaggio, tre spagnoli su cinque si dicano pessimisti sulla situazione economica del proprio Paese. Difficile capire se questi, di fronte alla scheda elettorale e matita alla mano, ne attribuiranno la responsabilità a Zapatero o se, invece, sapranno valutare il mutato contesto internazionale.

Dal canto loro, i popolari di Rajoy hanno cercato di modificare la propria campagna elettorale, puntando proprio sui temi economici. Da qui, la scelta di lanciare la candidatura di un uomo d’affari: Manuel Pizarro, presidente di Endesa, la grande utility energetica. Senza dimenticare poi il classico dei classici: la riduzione delle tasse. Ma il confronto televisivo tra Pizarro e il ministro delle Finanze Pedro Solbes ha dimostrato che anche quando si parla di economia non è così facile mettere in crisi il governo uscente. A mettere al sicuro la Spagna dagli annunciati periodi di stagflazione c’è quello che all’italiana si potrebbe chiamare “tesoretto”, ossia 2,7 milioni di nuovi contribuenti, per la maggior parte stranieri sottratti alla clandestinità e al lavoro in nero.

E l’immigrazione è l’altro nodo caldo che i popolari tentano di rivolgere contro i socialisti. La strategia, anche qui, non ha niente di particolarmente nuovo: puntare sulle ansie delle classi medie, impaurite di fronte a una popolazione straniera che in sette anni si è quintuplicata, arrivando a contare 4 milioni di persone e il 10 per cento del totale. Sull’esempio francese, Mariano Rajoy ha promesso che in caso di vittoria, farà firmare agli immigrati un “contratto d’integrazione” che li vincoli a imparare la lingua e a tornare a casa propria in caso di lunghi periodi di disoccupazione o di problemi con la giustizia. Ma su questo terreno è stato facile per i socialisti tacciare il Pp di avere idee reazionarie e di coltivare un eccessivo nazionalismo.

Appena si entra però nel campo delle riforme sociali e dei diritti civili, la partita per i popolari diventa persa in partenza. Snellimento delle pratiche per il divorzio, legittimazione del matrimonio per gli omosessuali, maggiore laicità dello Stato con l’esclusione dai curriculum scolastici della religione cattolica e sostegno alle famiglie che scelgono di avere figli, sono passi avanti che la maggior parte della popolazione spagnola considera positivamente. E questo nonostante gli anatemi che i vescovi non hanno mai mancato di lanciare a Zapatero, colpevole a detta loro di far regredire la società spagnola e di mettere in crisi la famiglia. Non sono bastati il Family Day del 30 dicembre e i suoi 150mila partecipanti per mettere in difficoltà il governo.

A margine di questa campagna elettorale giunta ormai agli ultimissimi giorni, rispunta fuori la guerra in Iraq. Durante l’ultimo confronto televisivo, Rajoy ha dato l’impressione di credere ancora che la scelta di Aznar di appoggiare gli Stati Uniti di George W. Bush e l’Inghilterra di Tony Blair fosse giusta. Poco meno di un assist all’avversario, considerando che il 92 per cento degli spagnoli si è detto contrario a quell’intervento. Ad animare il dibattito, anche l’eterno scontro sul modo di contrastare l’Eta. Tutto questo saranno chiamati a valutare gli elettori spagnoli domenica prossima, in un tornata elettorale che aspetta “solo” di definire il “quanto”, ma non il “chi”.

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