di Bianca Cerri

Il due aprile prossimo conosceremo il nome della vincitrice di Miss Mina Antiuomo 2008, che si svolgerà in Angola. Le dieci partecipanti rappresentano le dieci province del paese africano e ognuna di loro ha perso un arto inferiore proprio a causa di uno degli ordigni antiuomo sparsi nei circa 2800 campi ancora da sminare. Hanno accettato di sfilare nella speranza di aggiudicarsi la protesi messa in palio dagli organizzatori che renderà meno dura la vita di una di loro, le altre dovranno trovare un’alternativa. La più anziana ha 32 anni ed è rimasta vedova da poco con tre bambini di 3, 11 e 12 anni da crescere. La più giovane ha 19 anni e tra poco diventerà madre per la prima volta. L’ideatore del concorso è un giovane regista norvegese, Morten Traavik, collabora con lui Maria Nazareth Neto, supervisore del governo angolano. La manifestazione vuole ufficialmente sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle mine antiuomo facendo sfilare dieci ragazze che ne hanno pagato il prezzo. Il Consiglio Norvegese per l’Arte ha accettato di patrocinare l’evento. Sebbene non esistano motivi per dubitare delle buone intenzioni degli organizzatori, sorgono spontanee alcune domande. Era proprio indispensabile fare sfilare dieci donne africane con il corpo devastato per ricordare al mondo la tragedia delle mine antiuomo? E perché con tante agenzie umanitarie presenti in Africa bisogna vincere un concorso di bellezza per avere una protesi? In alcune zone del continente africano le mine antiuomo colpiscono un abitante su diciotto e le protesi sono indispensabili in caso di perdita di uno degli arti inferiori. Il costo non supera i 150 dollari, ma nei paesi in cui il reddito pro capite si aggira sui 15 dollari al mese si tratta di una cifra proibitiva.

Nel 1997, quando il business umanitario era ancora agli albori, le agenzie non governative registrate presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite erano soltanto 443. Oggi sono migliaia e rispetto ad undici anni fa, quando 122 paesi misero al bando le mine antiuomo, il loro potere è molto aumentato ma che ne è dei soldi che raccolgono? Servono veramente a sollevare gli esseri umani meno fortunati dalla fame, dagli sconvolgimenti portati dalle catastrofi naturali o dagli effetti della guerra?

Oggi molte agenzie hanno un planning ben organizzato, raccolgono fondi lanciando appelli dagli schermi televisivi ma le condizioni di molti popoli del terzo mondo non sono migliorate, segno evidente che anche tra gli operatori umanitari ci sono uomini di buona volontà, opportunisti e persino predatori pronti ad appropriarsi anche di ciò che appartiene alle persone più sfortunate.

A partire dal 1998 le raccolte fondi mediatiche sono state la maggior fonte d’entrata per le agenzie umanitarie. Le quali trattengono come minimo il 40% dei soldi raccolti, una parte del rimanente 60% viene speso per le campagne pubblicitarie, che in genere vengono affidate a creativi esperti nel realizzare spots in grado di incentivare il pubblico spingendolo a mettere mano al portafoglio.

I più rinomati e conosciuti sono quelli dell’Andrè Edwards, sede a Las Vegas, che pretendono però di lavorare solo in ambienti dove la troupe non corre particolari pericoli. In cambio garantiscono quegli accorgimenti necessari a stimolare la generosità degli spettatori. Ad esempio, se la raccolta fondi ha per soggetto l’Africa, per rendere efficace lo spot è bene che sullo sfondo s’intravedano capanne di paglia e nugoli di mosche.

E’ proprio grazie a particolari tanto azzeccati che nel 1998 alcune agenzie umanitarie riuscirono a mettere insieme ben tredici miliardi di dollari destinati alla lotta contro la carestia in Sudan. La Edwards scritturò un’attrice bionda che nello spot arrivava su un biplano che atterrava tra nugoli di polvere, poi la donna scendeva per andare ad abbracciare un bambino africano sfinito dalla fame sfidando nugoli di polvere. Nonostante i fondi tanto copiosi e gli spot efficaci, in Sudan morirono di fame 400.000 esseri umani.

Nei dieci anni trascorsi da allora, molte associazioni e agenzie non governative, come Feed the Children ed altre, hanno continuato a lanciare appelli e raccogliere fondi contro la fame. Eppure i bambini africani con il ventre gonfio per la malnutrizione e parassiti continuano ad essercene a migliaia nei paesi del Terzo Mondo.

Feed the Children ha raccolto quasi settecento milioni di dollari nel 2007 ma tra stipendi di presidente, vice presidente, general manager, tutti appartenenti alla famiglia che ha fondato Feed the Children, se ne va almeno il 10%; altri 80 milioni di dollari vengono spesi in campagne pubblicitarie, venti servono a pagare il personale, ecc. Alla fine non restano che gli spiccioli.

Tutte le religioni dicono che gli esseri umani hanno il dovere di operare a favore del prossimo. Il problema è che quando la solidarietà serve a comprare spot pubblicitari e le donne amputate sono costrette a sfilare in passerella con una corona di cartone in testa per avere diritto ad una protesi che consenta loro di camminare, diventa una specie di patto col diavolo. Se le agenzie umanitarie continuano a spendere trentamila dollari per permettere ai loro operatori di spostarsi da un posto all’altro nei paesi del terzo mondo, quanti bambini potrebbero sfamarsi? Quanto ci vorrà prima che il pozzo della generosità si secchi?

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