di Agnese Licata

Waiting in limboland”, in attesa nel limbo, titola l’Economist. In effetti, non c’è altro modo per descrivere la situazione dello Zimbabwe in queste ore: un limbo. Novantanove seggi su 210 al Movement for the Democratic Change (Mdc) di Morgan Tsvangirai contro i 97 rassegnati allo Zanu-Pf del presidente Robert Gabriel Mugabe. Alla fine quindi, i risultati ufficiali hanno confermato, almeno in parte, la vittoria rivendicata dall’opposizione fin dal giorno successivo alle elezioni. Ma a guastare la festa di chi sperava in queste votazioni per chiudere il lungo capitolo Mugabe, c’è un vantaggio molto più risicato delle attese. Il rischio è che a fare da ago della bilancia siano dieci seggi conquistati da un piccolo partito. Si tratta della fazione uscita fuori dall’Mdc e guidata da Arthur Mutambara. E mentre continuano le voci di un Mugambe in trattativa per un salvacondotto, lo stato africano aspetta ancora – a quattro giorni dalle elezioni – che la commissione elettorale renda noti i risultati delle presidenziali. A completare il quadro di questo limbo, ci sono tre seggi non assegnati. In tre circoscrizioni, infatti, si dovrà organizzare un turno elettorale suppletivo, a causa della morte di alcuni candidati. Un ultimo seggio, infine, è stato assegnato a un candidato indipendente: l’ex ministro dell’Informazione, Jonathan Moyo. Sembra farsi sempre più concreta l’ipotesi di un secondo turno per le presidenziali. “Lo Zanu-Pf è pronto per un secondo turno. Noi siamo pronti per un risultato che ci vedrà certamente vincitori”, ha dichiarato un portavoce del partito. Segno, probabilmente, che davvero nessuno dei due candidati – Mugabe e Tsvangirai – è riuscito a superare la soglia del 50 per cento. Dietro le dichiarazioni di circostanza, l’ex partito guida del Paese è diviso. Non tutti appoggiano Mugabe e qualche frangia potrebbe anche essere favorevole a un passaggio di consegne che permetta allo Zanu-Pf di recuperare, almeno in parte, quel consenso popolare che si è andato logorando sempre più velocemente.

I vent’anni della presidenza Mugambe (senza contare i sette anni da primo ministro), hanno mandato in rovina economia e stato sociale dello Zimbabwe. Fino ai primi anni Novanta, era una delle nazioni africane più floride. Adesso, può “vantare” un’inflazione galoppante e uno stato di recessione. L’agricoltura, che precedentemente aveva garantito al Paese l’autosufficienza alimentare, è in crisi a causa della politica razziale di Mugabe. Le terre dei bianchi, tradizionalmente abili agricoltori, è stata espropriata senza alcun indennizzo, con il risultato che in tanti sono fuggiti negli stati confinanti. Attualmente, i bianchi costituiscono appena l’un per cento della popolazione. La guida ben poco illuminata di Mugabe ha pensato di restituire così – occhio per occhio, dente per dente – tutto quello che i bantu hanno dovuto subire durante la dominazione inglese. Fino all’indipendenza (conquistata nel 1980), infatti, il regime dello Zimbabwe era del tutto assimilabile all’apartheid del Sudafrica.

Nettamente peggiorata è anche la situazione sanitaria del Paese. L’Aids colpisce un terzo della popolazione, facendo dello Zimbabwe la quarta nazione più colpita al mondo. Effetto, questo, anche dell’aumento della prostituzione, in un momento in cui l’80 per cento della popolazione è disoccupata ed è costretta a tutto per sopravvivere. Ad essere vittime indirette dell’Aids sono quel milione di orfani costretti a vivere senza alcun aiuto. Secondo l’Unicef, poi, la mortalità infantile è arrivata a colpire 81 bambini su mille, con un più 50 per cento rispetto agli anni Novanta. Diffusissima anche la malaria, a causa della mancanza di acqua potabile e fogne anche nelle città.

Di fronte a un quadro del genere, di tutto lo Zimbabwe avrebbe bisogno tranne della situazione di stallo politico che sembra prefigurarsi. Un secondo turno per le presidenziali costringerebbe il Paese ad attendere altre tre settimane. Almeno per ora, sembra scongiurata la paura che anche qua, come in Kenya, si arrivi alla guerra civile tra la popolazione e l’esercito fedele al vecchio presidente. Ma per quanto tempo ancora, è difficile dirlo.

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