di Eugenio Roscini Vitali

Gli scontri che insanguinano le strade di Lhasa, le proteste inscenate dalla gente dell’altopiano e la repressione messa in atto dalle autorità cinesi sono i principali ingredienti di uno scontro culturale che risale a tempi antichi, che si è sviluppato, modificato ed è cresciuto nell’era moderna e che è definitivamente esploso dopo l’invasione cinese del 1950, quando le truppe della neonata Repubblica Popolare occupano parte del Tibet e danno inizio ad un lungo periodo di repressione fatto di stragi, annientamento delle istituzioni politiche, culturali e religiose e che si è poi trasformato in una vera e propria colonizzazione demografica. Le tensioni fra India e Cina, l’importanza strategica della regione e la necessità di far divergere il malcontento derivante dalla rigida applicazione delle teorie rivoluzionarie inducono Pechino a prendere il possesso di un territorio sul quale non aveva mai avuto un controllo assoluto, nel quale i simboli religiosi sono spesso diventati emblemi di indipendenza, di status e di sovranità. Il declino dell’Impero Mongolo e l’incapacità ad esprimere una forma di governo slegata dalla spiritualità dei Dalai Lama fanno sì che all’inizio del XVIII secolo il Tibet cada nelle mani della Cina, che in poco tempo e con l’inganno lo trasforma in una sorta di protettorato. Chiuso tra il colosso asiatico e il confinante Kashmir, inglese dal 1843, diventa uno Stato cuscinetto, un territorio a rischio la cui frontiera con il Nepal viene stabilita con il trattato anglo-cinese del 1856. Per sanare una controversia sul confine, nel 1904 Londra decide di intervenire militarmente; in risposta all’occupazione militare messa in atto dalle truppe britanniche Pechino rivendica, per la prima volta, la sovranità cinese sulla regione himalayana. L’invasione determina la successiva stipula di un accordo con il quale Londra obbliga le autorità di Lhasa ad aprire i confini commerciali con l’India e a non stringere relazioni con altre nazioni straniere se non preventivamente approvate dalla Gran Bretagna.

Nel 1906 britannici e cinesi sottoscrivono il trattato sino-britannico: reciproco impegno a non intromettersi negli affari del governo tibetano. Nel 1907 Londra e Mosca decidono di non minacciare l'integrità territoriale della regione; tre anni dopo la Cina invade nuovamente il Tibet. Il Dalai Lama, costretto alla fuga, trova rifugio in India dove viene accolto dagli inglesi che nel 1912 liberano Lhasa; le truppe cinesi vengono espulse e nel 1913 il tredicesimo Dalai Lama riafferma l'indipendenza del Tibet. Nel 1914 il Tibet e l’India britannica ratificano il Trattato di Simla con il quale viene confermata l'indipendenza tibetana e vengono definiti i confini e la sovranità del paese. Il trattato non viene però riconosciuto dai cinesi che si ritengono defraudati del territorio indiano del Arunchal Pradesh; a causa delle tragiche conseguenze dovute alla rivoluzione del 1911, alla sanguinosa guerra civile tra nazionalisti del Guomindang e comunisti di Mao Zedong e all’aggressione nipponica, la Cina accantonerà per lungo tempo ogni pretesa sulla regione.

Contando sull'appoggio militare britannico e sull’instabilità politica del colosso asiatico, il Tibet riesce a mantenere intatta la propria sovranità per più di trent’anni ma mentre gli inglesi evacuarono l'India, nel 1949 a Pechino i comunisti prendono il potere. Con la vittoria di Mao e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese torna alla ribalta la questione dei territori separati dalla madrepatria: Mongolia, Corea, l'isola di Taiwan, i territori settentrionali di Birmania, Laos, Vietnam, Pakistan e India, il Nepal, il Tibet, le regioni russe oltre i fiumi Ussuri e Amur, la regione afgana del Wakkan, gran parte dell’Asia centrale e innumerevoli isole. Il 1° gennaio 1950 radio Pechino annuncia l'imminente liberazione del Tibet dal giogo dell'imperialismo britannico; senza incontrare alcuna resistenza, il 7 ottobre l'Esercito di liberazione popolare attraversa il confine e il 19 ottobre occupa la località di Chambo. Con un’Europa praticamente sorda e gli Stati Uniti già duramente provati sul fronte coreano, la Cina si impadronisce in breve tempo di uno Stato che ancora oggi gran parte del mondo non riconosce. L'11 novembre il governo di Lhasa protesta presso le Nazioni Unite contro l'aggressione cinese ma l’unico paese a raccogliere l’appello è El Salvador.

Sotto la minaccia di una violenta repressione militare, il 23 maggio 1951 una delegazione tibetana è obbligata a firmare un trattato sulla pacifica liberazione del paese (l’Accordo dei diciassette punti), documento che verrà utilizzato da Pechino per trasformare il Tibet in una vera e propria colonia. L’anno successivo Pechino da il via ad una invasione demografica di massa e ad una guerra senza quartiere contro i simboli religiosi del Buddismo: di fronte alla completa indifferenza della comunità internazionale le milizie comuniste soffocano nel sangue qualsiasi azione di protesta, vengono eseguiti arresti di massa, perseguitati i monaci buddisti e distrutti i monasteri. Nonostante l’aiuto dei servizi segreti americani, i cinesi stroncano ogni forma di rivolta e tra il 1956 e il 1959 si contano decine di miglia di morti, uomini, donne e bambini massacrati senza pietà. Il 17 marzo 1959 il Dalai Lama abbandona il Tibet per cercare asilo politico in India; con lui più di 80 mila profughi lasciano il paese.

Nel 1965, Pechino proclama la nascita della Regione Autonoma del Tibet e il presidente della Repubblica Popolare, Liu Shaoqi, annuncia l’annessione ufficiale dell’intera regione alla Cina. Subito dopo sono gli effetti della Grande rivoluzione culturale cinese a colpire il Tibet: lanciata nel 1966 da Mao Zedong per mettere in atto l’ortodossia del pensiero marxista-leninista, in due anni causa la morte di un milione di tibetani e una campagna di vandalismo sfrenato storpia in modo irrimediabile la cultura e il tessuto sociale del paese. Da allora è cambiato ben poco; fino ad oggi l’invasione del Tibet ha provocato più di un milione e mezzo di vittime, un numero imprecisato di profughi, l’insediamento di sette milioni di cinesi, che rappresentano ormai la stragrande maggioranza della popolazione, la distruzione di seimila monasteri, centinaia di migliaia di arresti, soprattutto monaci e monache rinchiusi nelle carceri cinesi per reati politici legati alla richiesta d’indipendenza.

Le pretese con le quale Pechino legittima i propri diritti sul Tibet possono avere due diverse chiavi di lettura: la prima è storica e sarebbe legittimata dall’invasione dell’altopiano avvenuta nel XVIII secolo; la seconda è legata al moderno concetto di sovranità con cui le potenze europee, il Giappone e gli Stati Uniti hanno gestito per lungo tempo le loro colonie. La combinazione di questi due diversi aspetti dell’imperialismo hanno fatto sì che il Tibet diventasse parte integrante della Cina; lo testimonia l’Accordo dei diciassette punti che i tibetani sono stati costretti a sottoscrivere nel 1951 e con il quale Pechino, in nome di una liberazione pacifica della regione, ha detto fine ad ogni speranza di autodeterminazione. Un altro fatto che ha influenzato l’azione cinese in Tibet è stato senza dubbio l’invasione britannica del 1904 con la quale Pechino ha preso coscienza della propria vulnerabilità sul fronte himalayano e che la Repubblica Popolare ha poi strumentalizzato per giustificare l’aggressione del 1950.

Storicamente il problema tibetano è sempre stato collegato ad una questione di autonomia e indipendenza, un caso nato nell’era post-coloniale che non ha le connotazioni classiche di una questione politica o di uno scontro etnico, ma che esprime un diverso concetto di nazionalismo e di sovranità territoriale, l’idea del colonialismo occidentale intrapreso nel XIX secolo che viene interpretata da attori non occidentali. Ora che però i cinesi hanno trasformato il Tibet in paese squallido e triste, non più un angolo carico di segreti e spiritualità ma un mito violato e violentato in ogni modo, ora che Lhasa non è più la città proibita ma un grande postribolo con più di diecimila prostitute e duemila bordelli, ora che l’alcolismo e il racket del gioco d’azzardo hanno spazzato via un’intera civiltà e che la ferrovia è arrivata nel cuore della capitale per dare il via ad una nuova ondata di “civilizzazione socialista”, la partita non riguarda più un semplice problema di sovranità.

Gli appelli lanciati dal Dalai Lama in questi ultimi mesi potrebbero essere gli ultimi: il Tibet, con la sua storia e le sue secolari tradizioni, rischia di scomparire definitivamente così come sono svaniti nel nulla migliaia di monasteri, una quantità infinita di opere d’arte, di libri religiosi e di pietre-mani, i sassi scolpiti con i quali sono state lastricate le latrine di Lhasa. Che la cultura tibetana sia stata praticamente cancellata e che è semplicemente folle pensare di ricostruire quello che i cinesi hanno distrutto in così breve tempo sono fatti inequivocabili. L’unica cosa che si può ancora salvare sono i tibetani, quelli rimasti a combattere per la propria identità, chiusi in ghetti di periferia, in squallidi quartieri circondati da alti muri, controllati a vista dagli uomini armati; quelli costretti a vivere come nomadi o che hanno dovuto lasciare le campagne per lasciare il posto ai coloni. E’ per loro che il mondo dovrebbe muoversi, per impedire che quello che è accaduto fino ad ora non continui. Per fermare un genocidio demografico programmato però non basta una condanna politica o la rinuncia a partecipare alla manifestazione di apertura di un’Olimpiade, i tibetani si aspettano qualche cosa di più.

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