di Eugenio Roscini Vitali

“Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Essi ci considerano - e dal loro punto di vista non hanno torto - degli occidentali, degli stranieri, degli invasori che si sono impadroniti di un Paese arabo per farne uno Stato ebraico. Dal momento che noi siamo obbligati a realizzare i nostri obiettivi contro la volontà degli arabi, dobbiamo vivere in uno stato di guerra permanente”. Queste sono le parole del generale Moshe Dayan all’indomani della Guerra dei sei giorni, una dichiarazione che ancora oggi riassume perfettamente la situazione mediorientale e le reali possibilità di una pace negoziata. Da allora è cambiato ben poco, soprattutto per chi, già vittima della scriteriata spartizione dell’Impero ottomano avvenuta all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, si è ritrovato a fare i conti con quel panarabismo estremo che ha caratterizzato gli anni cinquanta e sessanta e che ha sempre subordinato la causa palestinese ai propri interessi. La stessa gente che ha dovuto affrontare quella parte della comunità internazionale che sostenendo Israele ha cercato di lavarsi la coscienza da secoli di indiscriminato antigiudaismo e che ha subito quel sionismo politico che, legittimato dall’antisemitismo, non ha mai tenuto in considerazione l’esistenza di un popolo arabo in Palestina: “Una terra senza gente per gente senza terra”. Il piano approvato il 29 novembre 1947 dalle Nazioni Unite, che stabilisce la spartizione della Palestina e la nascita di due Stati separati, uno arabo e uno ebraico con Gerusalemme corpus separatum, e che viene preferito ad uno Stato federato, si rivela subito un fallimento: l’ostilità dimostrata dai Paesi arabi e lo scoppio della guerra del 1948 mette fine di ogni possibile progetto di suddivisione del territorio e, mentre l’aggressione militare sferrata contro gli israeliani da Egitto, Libano, Giordania, Iraq e Siria chiude definitivamente il capitolo intitolato “pacifica convivenza tra arabi ed ebrei”, Il Cairo ed Amman si arrogano il diritto di annettere gran parte del territorio che avrebbe dovuto dar vita allo Stato di Palestina.

Traditi delle ambizioni giordane e del nazionalismo arabo, i palestinesi diventano così le vittime dimenticate di un conflitto del quale erano stati essi stessi causa. Al contrario, l’impatto della Guerra di liberazione rafforza la coscienza collettiva degli israeliani che hanno pagato l’indipendenza con la morte di seimila persone, l’1% di una popolazione che nel 1948 conta circa 650 mila unità e che è costituita in gran parte da ebrei sfuggito ai pogrom dell’Europa dell’est.

All’ondata migratoria che segue il conflitto (nel solo triennio 1948-1951 più di 700 mila gli ebrei arrivano in Israele, per lo più sopravvissuti ai campi di sterminio nazista e profughi provenienti dai Paesi arabi) corrisponde l’esodo di 850 mila arabi-palestinesi, fuggiti e in gran parte spinti dalle truppe israeliane a lasciare tutto ciò che hanno. Al loro posto i nuovi coloni israeliani continuano lo sviluppo di quello strumento rurale che è stato il mito fondativi dello Stato ebraico, il kibbutz, elemento che aveva demolito l’idea di ghetto e attraverso il quale i pionieri socialisti erano riusciti a conquistare il diritto al lavoro della terra. Così, i 156 mila arabi rimasti nel nuovo Stato di Israele si ritrovano senza un leader, un’elite intellettuale e un tessuto sociale ed economico che li sostenga.

L’unica forza politica autorizzata è il Partito Comunista: una concessione fatta più all’Unione Sovietica, che appoggia la nascita dello Stato di Israele, piuttosto che ai non ebrei. Lo stato giuridico degli arabi cambia però quando il padre fondatore della nazione, David Ben-Gurion, concede loro la cittadinanza israeliana e il diritto al voto; un modo per dimostrare al mondo che Israele era un paese democratico e, come racconta Uri Avnery, giornalista e pacifista israeliano, un subdolo escamotage per ottenere il sostegno elettorale della comunità araba.

In realtà le regole della democrazia israeliana, fortemente influenzata dal problema della sicurezza e dall’onnipresenza dell’apparato militare, continuano a condizionare la vita, la libertà e i diritti degli arabi che hanno scelto di vivere in Israele: per lasciare il proprio villaggio, mandare i figli a scuola, cercare un lavoro, acquistare materiali agricoli o svolgere qualsiasi attività, se pur lecita, hanno bisogno di una serie infinita di permessi, tutto questo mentre le autorità gli espropriano le terre per promuovere lo sviluppo urbano e la costituzione di nuovi kibbutz. Ogni iniziativa politica viene repressa, il movimento al-Ard (la terra) viene dichiarato fuori legge e i suoi leader esiliati, i giornali arabi proscritti.

La discriminazione rimane parte sostanziale della società israeliana anche dopo il 1966, quando il governo militarizzato ha lasciato il posto a forme più democratiche di rappresentanza politica e Ben-Gurion è uscito di scena. Intanto, in Israele è cresciuta una nuova generazione di arabi: sono ragazzi che non hanno sofferto l’esperienza delle espulsioni di massa, che studiano, lavorano e godono di una situazione sociale sicuramente migliore di quella sofferta dai genitori. Su di loro l’ordine di sparare dato ai soldati israeliani ha un impatto ancora più violento.

All’inizio del 1976 il partito arabo Rakah decide di scendere in piazza per protestare contro il piano di esproprio votato dai membri del Knesset, 21 chilometri quadrati (cinquemila acri) di terreno agricolo che per molte famiglie rappresentano l’unica fonte di sussistenza. Dalla Galilea al Negev, le città arabe diventano teatro di scioperi e manifestazioni e il 30 marzo, lungo la strada che collega i villaggi di Sakhnin, Arrabe e Deir Hanna, i dimostranti vengo a contatto con la polizia e con le Forse di difesa israeliane: sei arabi disarmati vengono uccisi, più di cento i feriti. Questo infausto momento verrà ricordato dai palestinesi come il Giorni della terra, una commemorazione che a più di trent’anni di distanza scuote ancora la coscienza di molti e che rappresenta un tributo a chi ha combattuto contro ogni forma di occupazione, colonizzazione e discriminazione razziale.

Il Giorno della terra è anche un modo per non dimenticare uno dei più grandi problemi che hanno caratterizzato il rapporto tra ebrei e palestinesi: la legge sulla proprietà del marzo 1950 con la quale il governo si appropria dei terreni appartenenti agli arabi che nel 1948 avevano lasciato Israele. Lo stesso trattamento verrà poi riservato a molti arabi di cittadinanza israeliana ai quali verranno confiscati, tra il 1950 3 il 2003, più di mille chilometri quadrati di terra.

Il Giorno della terra ha anche cambiato il rapporto tra i palestinesi rimasti in Israele e quelli che sono stati costretti alla fuga: fino ad allora considerati traditori e collaboratori dei sionisti, gli arabi di cittadinanza israeliana tornano a far parte della comunità palestinese che da quel giorno li etichetta con il nome di “arabi del 1948”. La tragedia si ripete nell’ottobre del 2000, quando la polizia uccide ancora sparando contro un gruppo di arabi di cittadinanza israeliana che stanno manifestando la loro solidarietà per le vittime del massacro di Haram al-Sharif. A vivere questo dramma sarà però un’altra generazione: quella dei ragazzi che sono riusciti a frequentare l’università, che si sono integrati nel mondo del lavoro, che sono diventati uomini d’affari, professori, medici, commercianti, persone che concorrono alla crescita del Paese e che la società non può ignorare.

Nonostante i rapporti con gli ebrei siano migliorati, per molti di loro rimane comunque sempre lo stesso dilemma: quale è lo status della minoranza araba all’interno della nazione ebraica? Devono essere considerati sia israeliani che palestinesi o devono credere che il loro Stato sia in guerra con il loro stesso popolo? Quanto è forte la componente palestinese in un arabo con cittadinanza israeliana?

Nel corso degli ultimi anni, nel tentativo di normalizzare i rapporti tra le due comunità, gli intellettuali arabi di cittadinanza israeliana hanno promosso diverse proposte, due delle quali rappresentano le principali correnti di pensiero. La prima considera Israele uno Stato democratico nel quale convivono una maggioranza ebraica ed una minoranza araba; entrambe godono degli stessi diritti di rappresentanza e delle singole autonomie religiose e culturali; entrambe posso mantenere i contatti con i rispettivi popoli, siano essi profughi o nati in altro Stato. La seconda, che si rifà al modello statunitense, vede Israele come una nazione dove i cittadini sono tutti uguali, dove non si parla più gruppi etnici, dove non esistono differenze religiose o di razziali. Certo, queste potrebbero essere soluzioni utopiche, che non verranno mai realizzate o la cui attuazione, se pur parziale, richiederà ancora molti decenni.

In un Paese dove la religione spesso influenza la sfera del diritto, dove la società è attraversata da antagonismi interni, la contrapposizione tra laici e religiosi è sempre più forte e il fronte di chi rifiuta la violenza come unica soluzione è sempre più vasto, qualche cosa sta cambiando. I fatti sembrano dimostrare che nonostante le indubbie difficoltà, i sacrifici e le rinunce a cui gli arabi sono stati sottoposti, la convivenza è possibile.

E’ questo che dovrebbe essere preso come argomento di riflessione da chi continua caparbiamente a voler risolvere il problema israelo-palestinese con la forza o, ancor di più, da coloro che a migliaia di chilometri di distanza, spesso senza neppure essere arabi-palestinesi o ebrei, scendono in piazza per dimostrare la loro faziosità e la loro intolleranza o si riuniscono per dibattere di fronte alle telecamere su questioni di principio che rischiano di riaccendere quei mali oscuri della società che da sempre si nutrono di pregiudizi e falsità, dimostrando un sconcertante cecità intellettuale e storica.

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