di Giuseppe Zaccagni

Dalle urne della Serbia esce - dopo otto anni dalla fine del sistema politico-istituzionale di Milosevic - l’opzione europea. La vittoria elettorale spetta al blocco liberale - “Per una Serbia europea” - guidato dal presidente della Repubblica Boris Tadic - psicologo laureato a Belgrado - e mette all’angolo i nazionalisti del Partito Radicale (Srs) di Tomislav Nikolic. Si è quindi ad una svolta che, pur non offrendo una maggiore stabilità socio-politica, pone alcuni punti cardine nella gestione del paese. In pratica si avvia un processo verso Bruxelles, ma si tende a non sottovalutare il nodo kosovaro visto nel quadro dei rapporti con Pristina, con Tirana e, soprattutto, con Mosca e Washington. Tutto questo vuol dire che i serbi non rinunciano a restare fuori del consesso europeo, ma vogliono allo stesso tempo far notare alle diplomazie filoamericane che la questione del Kosovo è ancora lontana dall’essere accettata e risolta. Tadic, in tal senso, può cantare vittoria. Ha puntato tutte le sue carte in una lotta sfrenata contro le tentazioni nazionaliste e scioviniste e si è fatto forte dell'accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) strappato a Bruxelles a fine aprile per presentarsi quale garante di un futuro europeo e di rilancio economico del Paese. Ha detto a chiare lettere di non volere un ritorno al passato puntando, di conseguenza, a disegnare una Seria moderna, indipendente, aperta alle strade europee. Eccolo, quindi, pronto più che mai a raccogliere il successo sancito dalle urne. Forte anche di un carisma del tutto particolare che lo sta aiutando a consolidare l’asse politico ed economico dell’intero paese.

Cinquanta anni, in sella al potere da circa quattro anni, viene da una famiglia di intellettuali di Sarajevo, in Bosnia: il padre è noto come storico con venature nazionaliste e la madre psicologa di grande valore. Si è formato nelle file dell’opposizione a Milosevic sin dai primi anni ’90 ed è poi divenuto dirigente dell’ala moderata del partito democratico (Ds) di quel Zoran Dijndic che fu il premier liberal riformatore che caratterizzò il dopo 2000 della Serbia.

Eletto poi presidente della Repubblica una prima volta nel giugno 2004 e di nuovo nel dicembre 2007 opponendosi al candidato nazionalista Nikolic ora ha raggiunto il suo obiettivo. Padre-padrone del blocco “Per una Serbia Europea” è riuscito a formare una coalizione di partiti d'orientamento europeista ponendosi però in alternativa alle tendenze isolazioniste. La storia - ha detto ai suoi elettori - non avanza in linea retta e, quindi, bisogna tender conto delle circostanze.

E così, dando prova di una corposa e approfondita memoria, ha lanciato alla società serba i suoi messaggi per superare lo stallo dell’autoisolamento nazionale. Contrario, comunque, al riconoscimento dell'indipendenza della provincia del Kosovo, è riuscito con un gioco diplomatico improntato al pragmatismo, a non spingere il dissenso con l'Occidente su questo punto fino a compromettere l'obiettivo strategico dell'adesione a Ue e Nato.

E’ appunto con questa tattica politica che Tadic ha messo alle corde il suo diretto avversario, Tomislav Nikolic. Un politico dell’area nazionalista messo a capo di quel partito radicale (Srs) carico di storie complesse e tutte segnate da quel personaggio come Vojislav Seselj finito - per quelle azioni che hanno portato il paese allo scatenamento dei conflitti etnici - alla sbarra dinanzi al tribunale internazionale dell'Aja (Tpi) per complicità nei crimini di guerra degli anni '90. Una situazione che non gli ha impedito, comunque, di essere simbolicamente il candidato ombra in queste elezioni, pur residendo nella cella del carcere olandese in cui si trova in attesa di giudizio.

I serbi - questa la realtà delle elezioni attuali - non gli hanno creduto e, di conseguenza, hanno respinto anche il suo delfino Nikolic. Personaggio, comunque, che vanta una biografia di tutto rispetto. Nato a Kragujevac 57 anni fa, geometra di formazione. E’ stato Vicepremier nella breve stagione dell'alleanza fra lo Srs e i socialisti di Slobodan Milosevic seguita alla guerra per il Kosovo del 1999. E’ rientrato nei ranghi d'una formazione restata in piedi dopo la caduta del vecchio regime. Successivamente si è fatto portavoce del malcontento sociale. Ma si è distinto, soprattutto, nella campagna per un Kosovo serbo, per l’integrità nazionale, per la lotta contro la Nato. E, soprattutto, si è caratterizzato con una politica tendente a creare un asse strategico con Mosca e magari anche con la Cina o con altre potenze non occidentali.

Ora Nikolic esce battuto dalle urne. Ma è chiaro che tutte le sue spinte in direzione di un Kosovo unito a Belgrado non restano nel dimenticatoio. Tanto che quel Vojislav Kostunica - premier uscente - gli resta idealmente vicino come esponente di un mondo conservatore e devoto alla tradizione cristiano-ortodossa. Ed è chiaro che l’occidente europeo si trova a non poter cantare ancora vittoria. La Serbia - spaccata - resta in stato d’allarme per quanto riguarda la questione kosovara. Tanto più che le ferite di quella guerra di aggressione - voluta dalla Nato e dai padroni americani - sono ancora tutte aperte. Con Belgrado che si troverà sempre più costretta a vedere che la politica “diplomatica” di Bruxelles e di Washington è sempre carica di attacchi ad una sovranità nazionale che la Bosnia, appunto, rivendica non solo per la provincia kosovara, ma per la sua intera nazione.

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