di Valentina Laviola

Alcuni giorni fa una sentenza in Malaysia ha di fatto permesso l’apostasia di un’imputata. Siti Fatimah Tan Abdullah ha vinto la sua battaglia trovando legalmente riconosciuto il suo abbandono della religione islamica per tornare al buddismo. La signora, nata cinese, si era convertita all’Islam solo per sposare un uomo musulmano, il quale l’aveva lasciata dopo pochi mesi; pertanto, il giudice Othman Ibrahim della “Syarie High Court” ha accettato la sua istanza, dichiarando che la suddetta non aveva mai praticato davvero gl’insegnamenti dell’Islam; il magistrato ha inoltre redarguito il “Penang Islamic Religious Council” per non essere stato all’altezza delle proprie responsabilità nell’istruire e seguire i neo-convertiti. Si tratta di un epilogo quantomeno insolito, dati i precedenti in materia nella cronache recenti. La Malaysia è uno di quei paesi a maggioranza islamica (tra i quali figurano anche l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, l’Iran, il Pakistan) dove l’apostasia è ancora vista come un atto di estrema gravità. Nonostante la libertà di culto sia formalmente garantita, nella pratica l’appartenenza religiosa è ufficialmente riportata sui documenti personali ed una eventuale modifica degli stessi deve essere richiesta al Dipartimento di registrazione nazionale.

Nel caso in cui un cittadino musulmano decida di passare ad un’altra confessione, spetta alle autorità religiose islamiche riconoscere tale cambiamento. Purtroppo, la legge del Paese non prevede alcuna procedura che imponga loro tale compito. Quindi, la così detta libertà di religione si riduce ad una applicazione del tutto arbitraria, se non evidentemente impossibile.

In particolare, i cittadini più colpiti nel panorama variegato della Malaysia, che conta al suo interno almeno quattro etnie diverse, sono i malay. La Costituzione nazionale li definisce come “persone che professano l’Islam, praticano il linguaggio nazionale e ne praticano la cultura”. Una rappresentazione retrograda e fortemente limitante, che non tiene conto della realtà moderna in evoluzione e che costringe chiunque voglia convertirsi ad una religione diversa a vivere in semi-clandestinità, dal momento che i suoi documenti pubblici continueranno a dichiararlo un musulmano. Di fatto, rinunciare all’Islam significa cessare letteralmente di essere un malay. Il problema potrebbe essere risolto solo con un emendamento in grado di modificare la dicitura costituzionale. Cosa tutt’altro che semplice.

La maggior parte degli apostati sono giovani che sono venuti in contatto con altre realtà tramite esperienze all’estero o persone che si trovano nella spiacevole situazione di non poter sposare i propri partner a causa dell’intoppo della diversa religione d’appartenenza. In Malaysia vige la shari’a che pretende di punire gli apostati con la “riabilitazione” forzata o con il carcere; sempre meglio della pena di morte comminata altrove per lo stesso “reato”.

In Pakistan, ad esempio, è stata approvata negli ultimi anni una legge che prevede pene pesantissime per gli apostati dall’Islam: la morte per gli uomini e l’ergastolo per le donne, oltre alla confisca dei beni e la perdita della tutela legale dei propri figli. La risoluzione, se pur approvata di recente, è modellata sulle norme del diritto musulmano classico: questo si fonda su una caratteristica confessionale, che pone come necessaria l’appartenenza alla Umma – la comunità dei fedeli – perché sia riconosciuta ad un individuo la capacità giuridica. L’apostasia o ridda, pertanto, causa inevitabilmente la perdita della stessa. L’apostata – murtadd – deve cessare qualsiasi legame giuridico con la Umma: il suo matrimonio è sciolto ipso iure, i suoi beni spettano all’erario musulmano e il suo atto di ultima volontà risulta nullo.

In Egitto – uno dei paesi dove è obbligatorio indicare la voce “religione” sui documenti d’identità - non c’è una legge che preveda ufficialmente la pena di morte per questa colpa, ma le conversioni sono fortemente sconsigliate per “motivi nazionali”; di fatto, gli apostati subiscono violenze, emarginazione e spesso la loro morte arriva come un incidente dovuto a qualche fanatico, talvolta persino per mano dei familiari.

Dobbiamo ricordare, tuttavia, che il problema non riguarda solo i paesi in cui viene applicata la legge islamica, anche in Cina dove, nonostante nuove leggi degli ultimi anni per la libertà religiosa, le persecuzioni sono ancora diffuse.

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