di Luca Mazzucato

Mercoledì scorso il doppio annuncio in contemporanea da parte del premier israeliano Olmert e del ministro degli esteri siriano Walid Moallem: i due paesi mediterranei hanno ufficialmente intrapreso la via del negoziato, fermo dal lontano 2000. Per il momento, i contatti sono indiretti e si stanno svolgendo da alcune settimane ad Ankara, sotto la mediazione del primo ministro turco Erdogan. Prepareranno la strada per il negoziato vero e proprio che potrebbe iniziare dopo l'insediamento della nuova amministrazione americana. Lo scoglio cruciale è il ritiro di Israele dalle alture del Golan, occupate nella guerra del '67 e popolate da coloni ebrei. Il territorio conteso tra i due paesi copre circa milleduecento chilometri quadrati all'estremità settentrionale dello stato ebraico e ospita una numerosa comunità drusa (ventimila persone, di cui due terzi conservano la cittadinanza siriana) e musulmana (duemila persone) a cui si sono aggiunti a partire dagli anni settanta circa sedicimila coloni ebraici. La zona è stata ufficialmente annessa da Israele nel 1981, anche se l'annessione non è riconosciuta internazionalmente. Il Golan è una zona di cruciale importanza strategica per la difesa israeliana: le montagne dominano tutta la rigogliosa pianura settentrionale dello stato israeliano e il lago di Galilea, la più importante riserva idrica della regione. Il monte Hermon, che sfiora i tremila metri, ospita una importante base militare israeliana.

Nella sua più recente dichiarazione, il ministro degli esteri siriano ha svelato la disponibilità di Israele al ritiro entro i confini del '67. Tuttavia gli ufficiali israeliani hanno concesso un ritiro solamente entro i “confini internazionali.” La differenza semantica è in questo caso anche sostanziale: i due confini differiscono di alcune centinaia di metri, che separano la Siria dalla riva settentrionale del lago di Galilea, pochi metri su cui si sono arenati i negoziati nel 2000.

Secondo l'ipotetica bozza diplomatica, la regione del Golan passerebbe sotto l'amministrazione mista di un “parco della pace” con libero accesso israeliano e accesso siriano limitato. Israele avrebbe circa dieci anni per evacuare i coloni ebrei, mentre il confine tra i due stati verrebbe completamente demilitarizzato. La Siria, in perenne carenza di risorse idriche, rinuncerebbe all'usufrutto del lago di Galilea, in cambio di aiuto diretto israeliano per la creazione di impianti di desalinizzazione, tecnologia in cui gli israeliani sono all'avanguardia.

Questa soluzione “creativa” alla Galthung rappresenta la parte tecnica dell'accordo, su cui sembra verosimile la possibilità di compromesso. Anche se la questione territoriale è di fondamentale importanza, le istanze politiche e diplomatiche sono il vero nodo da sciogliere. La Siria chiede l'ingresso diretto degli Stati Uniti nei negoziati, per essere derubricata dall'“asse del male” e mettere fine all'embargo economico. In cambio è pronta a normalizzare i rapporti con Israele, secondo la formula proposta dalla Lega Araba nel 2002.

Le richieste israeliane sono molto più impegnative per l'assetto regionale: in cambio della pace e del Golan, Damasco dovrebbe tagliare i ponti con l'Iran, ritirare l'appoggio alle fazioni palestinesi (i leader di Hamas e della Jihad Islamica si trovano in esilio a Damasco) e porre fine alle interferenze nella vita politica libanese.

Quest'ultimo punto è particolarmente importante per l'asse Washington-Tel Aviv: dopo il recente ritiro dal Libano, la Siria ha continuato a fornire aiuto militare ed economico a Hezbollah. Il Partito di Dio rappresenta un nemico giurato per Israele da una parte e un'opposizione formidabile al governo filo-americano del premier libanese Siniora. Tutti i problemi mediorientali sarebbero dunque sul tavolo dei negoziati.

Le reazioni all'annuncio a sorpresa sono state prevedibili. Mentre Netanyahu preferisce tenersi il Golan che rimanere “con un pezzo di carta in mano [il trattato di pace] sotto le bombe,” il vicepremier israeliano Yishai, del partito ultra-ortodosso Shas, ha stigmatizzato le dichiarazioni di Olmert: “Trasferire il confine settentrionale direttamente all'asse del male? No, grazie.” Un eventuale ritiro dal Golan dovrebbe essere approvato da un referendum popolare per nulla scontato: certa sarà la strenua opposizione della destra religiosa e del movimento dei coloni.

I leader del Labor Party, al contrario, hanno accolto con favore le dichiarazioni, ma hanno sollevato il sospetto che la mossa sia in realtà un trucco di Olmert per distogliere l'attenzione dalle accuse di corruzione. Il Likud si è spinto oltre, censurando il comportamento del premier: “Israele si ritira dal Golan per evitare a Olmert la galera.”

Il dubbio è in realtà condiviso da quasi tutta l'opinione pubblica israeliana. Nel 2005, l'ex-premier Ariel Sharon s’imbarcò nell'impresa del ritiro da Gaza proprio per evitare l'incriminazione formale per corruzione: suo figlio è stato poi condannato per finanziamento illecito. I negoziati con il presidente palestinese Abbas si sono completamente arenati e le accuse di corruzione si fanno pressanti: secondo la legge israeliana, in caso di accusa formale il premier è costretto a dimettersi. Ma un primo ministro non può essere licenziato nel mezzo di un negoziato con un nemico storico. Mercoledì mattina, le indagini su Olmert hanno subito un'improvvisa accelerazione, facendo emergere il legittimo sospetto per il “tempismo” nell'annuncio dei negoziati.

Mentre i negoziati con la leadership di Fatah sono privi tanto di contenuti quanto di rischi per Tel Aviv e servono chiaramente per continuare indisturbati la colonizzazione della West Bank, eventuali negoziati con la Siria hanno una portata potenzialmente rivoluzionaria per la regione. Al contrario della ricattabile leadership palestinese, il regime di Assad non può essere blandito con vaghe promesse ed apparizioni televisive, ma il confronto richiede un serio impegno diplomatico.

Il quotidiano arabo londinese Al Hayat ha rivelato che proprio gli Stati Uniti hanno fatto pressione sulla Turchia per tentare un'accelerazione nei contatti, segno di un possibile cambio di rotta americano e novità inedita dopo otto anni di dottrina Bush: il segretario di Stato Rice ha infatti prontamente appoggiato l'avvicinamente tra Siria e Israele. Ma sia Olmert che Bush sono ormai anatre zoppe e la macchina diplomatica americana potrà entrare in gioco con tutto il suo peso sono dal 2009 sotto la guida del nuovo presidente. Usciti di scena i neocon, è possibile che tanto i democratici quanto i repubblicani siano favorevoli ad un cambiamento di rotta in Medioriente, se non altro per cercare una soluzione alla catastrofe irachena.

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