di Michele Paris

Con il voto nelle primarie di domenica scorsa a Porto Rico e di martedì in Montana e South Dakota si è finalmente conclusa la lunga ed estenuante corsa alla nomination democratica tra Barack Obama e Hillary Rodham Clinton. La combinazione dei delegati ottenuti negli ultimi appuntamenti in calendario e la conquista di un significativo numero di superdelegati che ancora non avevano espresso la propria preferenza per uno dei due candidati ha permesso al 46enne Senatore dell’Illinois di superare la soglia di 2.118 delegati necessaria per guadagnare matematicamente la possibilità di sfidare John McCain nelle presidenziali di novembre e di diventare il primo politico afro-americano della storia a correre per la Casa Bianca con reali possibilità di successo. Un risultato di importanza storica quello raggiunto da Obama, il quale grazie alla promessa di cambiamento prospettata per milioni di elettori americani ha saputo abilmente ribaltare la sua posizione di outsider all’interno di un Partito che fino a pochi mesi fa sembrava doversi avviare invece verso l’inevitabile incoronazione di Hillary Clinton. Il lungo e conclusivo week-end elettorale era iniziato domenica con la netta vittoria della ex First Lady a Porto Rico (68% a 32%) grazie al tradizionale sostegno garantitole dall’elettorato ispanico e ai tradizionali legami dell’isola caraibica con il suo Stato di appartenenza (New York). Alla vigilia dell’ultimo appuntamento in calendario per i democratici, Obama da parte sua aveva bisogno di 41 delegati per assicurarsi con certezza la nomination. Quest’ultimo ha così raccolto un successo con un margine di 15 punti percentuali in Montana (56% a 41%), mentre è stato battuto con un divario più ridotto in South Dakota da Hillary (55% a 45%), due Stati dove complessivamente erano in palio 31 delegati. Una volta chiusi i seggi, Obama ha cominciato ad incassare l’appoggio di un numero sempre maggiore di superdelegati nel corso della serata americana fino a poter annunciare ufficialmente di fronte ad una folla di sostenitori riuniti a St. Paul, la città del Minnesota dove a settembre si terrà la convention repubblicana, la conquista della nomination.

“Stanotte registriamo la fine di un percorso storico con l’inizio di un altro, un viaggio che porterà nuovi e migliori giorni per l’America”, ha proclamato dal palco il Senatore di padre keniano e madre bianca del Kansas. “Grazie a voi, stanotte posso dire di essere il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti d’America”. Il trionfo di Obama segna la fine di una campagna elettorale durata oltre un anno e che ha frantumato ogni record, dal numero di votanti alle centinaia di milioni di dollari spesi, caratterizzandosi come poche volte in passato per le aspre tensioni che hanno diviso il Partito e che dovranno essere rapidamente sanate per non veder sfumare una vittoria che alla vigilia delle primarie appariva a dir poco scontata.

Come aveva già fatto nei giorni precedenti, Obama ha espresso poi la sua gratitudine verso Hillary mostrando aperture per una possibile prossima collaborazione che in molti hanno interpretato come una velata offerta per la vice-presidenza. La Clinton da parte sua ha tenuto un discorso a New York, inizialmente annunciato dall’Associated Press come un discorso d’addio, durante il quale ha avuto parole di apprezzamento per il suo rivale senza tuttavia riconoscerne esplicitamente il successo. Nonostante in privato i due abbiano gettato le basi per un faccia a faccia che dovrà fare chiarezza sia sulla questione della vice-presidenza sia soprattutto su quella della riunificazione del Partito intorno al candidato, Hillary ha sostenuto pubblicamente una volta ancora la sua causa di fronte ai superdelegati rivendicando, a suo dire, le maggiori garanzie della sua candidatura in una sfida con McCain e il presunto vantaggio da lei accumulato durante le primarie per quanto riguarda il voto popolare.

L’eventuale scelta di Hillary Clinton come “running mate” presenterebbe indubbiamente non pochi aspetti postivi per Obama, a cominciare dalla possibilità di ristabilire il legame con l’elettorato della ex First Lady, donne e classi meno agiate in primo luogo, dopo le difficoltà evidenziate dalle consultazioni in Stati come Pennsylvania, Ohio, Indiana, West Virginia e Kentucky. Hillary inoltre potrebbe sopperire a quella scarsa esperienza in politica estera di Obama che McCain sta prendendo di mira nelle ultime settimane, nonché convogliare verso il candidato democratico alla presidenza il contributo economico dei suoi numerosi sostenitori.

D’altro canto, riportare un altro membro della famiglia Clinton alla Casa Bianca apparirebbe una mossa in contrasto con la promessa di cambiamento che Obama ha lanciato in questi mesi. E ciò significherebbe dover fare i conti anche con Bill Clinton, la cui scomoda posizione potrebbe creare parecchie difficoltà all’eventuale futuro Presidente. Da considerare anche il possibile effetto che un “ticket” Obama-Clinton potrebbe produrre negli opposti schieramenti, allontanando contemporaneamente quanti sono tuttora riluttanti ad accordare il proprio voto ad un candidato di colore e ad una candidata donna.

In attesa dei prossimi sviluppi in casa democratica, il candidato repubblicano John McCain ancora una volta non ha perso tempo per attaccare il neocandidato democratico su alcuni dei temi che inevitabilmente accenderanno la campagna elettorale fino al 4 novembre. Respingendo le accuse di ricalcare fedelmente le orme di George W. Bush in ambito fiscale e sulla sicurezza nazionale, il quasi 72enne Senatore dell’Arizona in un discorso tenuto in Louisiana ha sottolineato come una sua presidenza rappresenterebbe invece una svolta rispetto agli ultimi otto anni di amministrazione Bush e non ha mancato di far notare le lacune di Obama per affrontare le delicate sfide in politica estera e nella lotta al terrorismo che attendono l’America nel prossimo futuro.

Nei prossimi mesi resterà da verificare insomma se Barack Obama sarà in grado di capitalizzare o meno una situazione che si presenta tuttora piuttosto favorevole per il Partito Democratico. Il desiderio diffuso di cambiamento, il profondo malcontento suscitato dalla politica dell’attuale inquilino alla Casa Bianca, un’economia in grande affanno e un sistema sanitario che continua ad escludere decine di milioni di cittadini sembrerebbero infatti delineare una congiuntura ideale per un cambiamento di rotta al vertice del paese. La consolidata macchina da guerra repubblicana, forgiata da un ventennio di attacchi volti ad indebolire una serie di candidati democratici con scarsa esperienza di campagne su scala nazionale, sta già dimostrando da tempo tuttavia di voler portare il dibattito sul terreno del patriottismo, della minaccia terroristica e delle presunte doti di “commander-in-chief” necessarie a chiunque aspiri alla carica presidenziale, temi ormai consolidati sui quali già cadde quattro anni fa John Kerry e nei quali Obama dovrà fare attenzione a non rimanere nuovamente invischiato.

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