di Eugenio Roscini Vitali

“Go Musharraf, go!”; è questo il grido che risuona per le vie di Lahore, Karachi, Rawalpindi, è questo lo slogan che migliaia di dimostranti inneggiano per le vie della capitale, è quanto i deputati della maggioranza chiedono a gran voce. L’ex generale però non molla e mentre il Paese scivola inesorabilmente verso la paralisi istituzionale lui resta aggrappato al potere, deciso a resistere, quasi certo che nulla potrà scalfire la sua immagine di leader. Musharraf non sembra scomporsi neanche di fronte all’oceanica dimostrazione organizzata dagli avvocati pakistani, decine di migliaia accorsi da ogni angolo del Paese per manifestare contro il presidente e per chiedere la riammissione dei giudici sospesi dal loro incarico prima delle elezioni dello scorso febbraio. Nonostante l’esercito abbia creato un cordone di sicurezza che comprende la residenza presidenziale, il Parlamento, la Corte suprema e il quartiere delle ambasciate, ad Islamabad la situazione rimane comunque tesissima: la scorsa settimana un attacco suicida contro la missione diplomatica danese aveva causato la morte di sei persone. A Islamabad c’è chi pensa che la mobilitazione di massa potrebbe spingere Musharraf a lasciare il Paese; in Pakistan però nessun dittatore ha mai lasciato il potere se non dietro esplicita richiesta delle Forze Armate e attualmente l’esercito pakistano ancora dalla parte dell’ex generale. Nonostante tutto Shahbaz Sharif, fratello minore del premier Nawaz Sharif e neoeletto capo del gabinetto della provincia di Punjab, la più popolata del Pakistan, è certo che la dittatura sta ormai esalando gli ultimi respiri e che al Capo dello Stato non rimane da fare altro che dare le dimissioni.

La crisi istituzionale potrebbe scoppiare del tutto se il documento di impeachment preparato dalla Legga musulmana dei fratelli Sharif venisse presentato ed approvato dal Parlamento. Non tutti però sembrano favorevoli all’incriminazione; a quanto pare il Partito popolare sarebbe favorevole ad una soluzione più morbida: lasciare al presidente pakistano una via d’uscita, una porta aperta per sfuggire all’impeachment. E così Musharraf diventa ancora una volta terreno di scontro, motivo di divisioni interne, causa di incertezze.

Dopo le elezioni politiche del 18 febbraio scorso la Lega musulmana pakistana ha siglato con il Partito popolare pakistano un patto di ferro. Prima ancora di formare il governo i due gruppi hanno stabilito un’agenda comune che mette al primo posto la fine di una dittatura che dura ormai da nove anni. A questo proposito il gabinetto sta già pensando di limitare i poteri presidenziali introducendo una modifica alla Costituzione. Questa velata minaccia non sembra però intimidire Musharraf che al contrario, durante un’intervista televisiva, ha dichiarato che non ha nessuna intenzione di lasciare il suo incarico, soprattutto a causa dell’attuale situazione di incertezza in cui versa il Paese. “Vivrò e morirò qui, non c’è altro modo….. La mia unica casa è in Pakistan”. In questo modo l’ex generale ha anche voluto smentire coloro che lo accusano di aver trasferito ingenti quantità di denaro all’estero che gli avrebbero assicurato un esilio dorato in qualche Paese arabo o negli stessi Stati Uniti.

Tra l’ex generale e i fratelli Sharif la rottura risale all’ottobre del 1999, quando l’allora Generale Musharraf rovesciò il governo presieduto dal primo ministro Nawaz Sharif che per evitare la condanna all’ergastolo fu costretto a fuggire in Arabia Saudita; un allontanamento durato quasi otto, fino al 10 settembre scorso, giorno in cui è stato graziato dalla Corte di giustizia pakistana. Anche se Musharraf ha dovuto esprimere parere favorevole, il ritorno in patria di Nawaz Shafir e dell’ex premier Benazir Bhutto, anche lei in esilio a Dubai, non gli è certo giovato.

Sembra infatti che negli ultimi 24 mesi il presidente pakistano abbia subito un gravissimo danno di immagine: soprattutto dopo il caso che ha coinvolto Iftikhar Chaudhry, il giudice della Corte suprema sospeso nel marzo 2007 con l’ingiusta e immotivata accusa di abuso di autorità, e dopo la morte della signora Bhutto, uccisa in un attentato mentre stava svolgendo un comizio elettorale nella città di Rawalpindi. Reintegrato dopo soli quattro mesi nelle sue funzioni, Chaudhry è stato messo nuovamente fuori gioco dalla proclamazione dello stato di emergenza che lo stesso Musharraf aveva ordinato per impedire alla Corte suprema di prendere decisioni riguardo la sua controversa rielezione a presidente della Repubblica.

Assediato dagli avversari, Musharraf ha più volte ricordato che tra le sue competenze è incluso il potere di licenziare, in qualsiasi momento, il Capo del governo. Alcuni deputati del Partito popolare stanno tentando di far votare un pacchetto di riforme che prevede un maggiore bilanciamento tra i poteri del gabinetto e quelli del presidente; allo stesso tempo, con all’appoggio di molti partiti minori, la Lega musulmana è pronta a chiedere in Parlamento l’impeachment.

Tra i 10 punti del testo, il presidente pakistano è accusato di: aver rovescia un governo legalmente eletto e arrestato il suo primo ministro senza addurre accuse dimostrabili; aver costretto le Forze armate a combattere, in nome della guerra al terrorismo, il conflitto di un altro Paese; aver usato l’esercito senza l’approvazione del parlamento; aver lasciato ai militari le principali cariche dello Stato in modo da poter esercitare pressioni sulla popolazione e sull’opposizione; essere coinvolto nella morte del leader nazionalista Akbar Bugti; aver allontanato e messo agli arresti domiciliari 60 giudici della Corte suprema; aver ordinato l’arresto indiscriminato di moltissimi attivisti dell’opposizione; aver consegnato agli Stati Uniti più di 600 persone in cambio di danaro; essere l’unico responsabile della carneficina di Lal Masjid nella quale sono morti centinai di bambini; aver favorito il nepotismo e la corruzione; aver svenduto società importanti come la “Pakistani Steel Mills”, la “Pakistan Telecommunication Limited” e la “Habib Bank”.

Questi i principali capi d’accusa su cui si basa l’impeachment proposto dalla Lega musulmana; incriminazione alla quale il Partito popolare non vorrebbe arrivare soprattutto per le probabili pressioni di Washington, sempre favorevole ad una soluzione compromessa che coinvolga tutti i livelli di potere. Stati Uniti con i quali l’attuale premier si è già scontrato a causa degli undici militari pakistani morti lungo il confine afgano, uccisi durante un attacco aereo sferrato dall’aviazione Usa contro i gruppi talebani presenti in quella zona; vittime collaterali che potrebbero mettere in discussione un’alleanza che fino ad oggi sembrava inscindibile. Stati Uniti che vogliono rimane a tutti i costi il principale attore politico dell’Asia meridionale e che per Musharraf rappresentano al momento la principale ancora di salvezza, almeno fino ad ottobre, fino a quando cioé l’inquilino della Casa Bianca sarà un signore di nome George W. Bush.

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