di Michele Andalini

E’ proprio il caso di dire che c’è poco da ridere. Sì perché hanno arrestato anche lui, il più celebre comico e attore birmano Maung Thura, in arte Zarganar, già noto per essere stato detenuto tre settimane a settembre del 2007 per aver sostenuto la rivolta dei monaci buddisti nella loro protesta antigovernativa. Ne ha dato notizia settimana scorsa la famiglia dell’attore, detenuto nel famigerato carcere Insein di Rangoon, dopo aver tentato anche lui, insieme a diversi altri donatori privati birmani, di portare aiuto alla popolazione civile dopo che il devastante ciclone Nargis ha distrutto le coste birmane e il delta del fiume Irrawaddy. La giunta militare parla di 78 mila vittime accertate e circa 56 mila dispersi. Secondo le Nazioni Unite 1 milione di persone ha tutt’oggi bisogno di cibo, assistenza medica e un tetto. Ma la conta delle vittime è difficile, perché il territorio su cui si è abbattuto il ciclone è molto ampio e la popolazione che vi abita vive in casette di legno o palafitte, approssimative e sparse senza un nucleo centrale vero e proprio. Da qui le più svariate indiscrezioni sui numeri dei morti e dei dispersi, usati anche come carta da giocare al tavolo delle trattative tra la giunta e la comunità internazionale per i permessi d’ingresso richiesti dalle organizzazioni umanitarie e da diversi paesi donatori, Usa Francia e Gran Bretagna in testa. Francia e Stati Uniti hanno infatti diverse navi al largo delle coste della Birmania pronte a intervenire per portare un aiuto diretto e non filtrato alla popolazione. Così almeno la versione ufficiale. Il gruppo USS Essex della marina americana, composto da 4 vascelli, 22 elicotteri e 5 mila militari chiede da settimane di poter intervenire. La nave Mistral della marina francese, che ospita tre elicotteri, mille tonnellate di aiuti e 60 mila tende per sfollati ha dovuto alla fine consegnare il suo carico alle Nazioni Unite in Thailandia dopo svariate richieste di ingresso nel paese. Per un regime che già soffre della sindrome di accerchiamento e che da anni teme un’invasione straniera proveniente dal mare, l’unico rifugio possibile è la chiusura verso l’esterno e colloqui, al contagocce, con i vicini asiatici.

L’ONU in totale è riuscita a far arrivare solo 10 elicotteri del World Food Programme nel delta dell’Irrawaddy. Le donazioni dei privati provenienti da tutto il paese sono in forte calo rispetto alla prima metà di maggio. I donatori sono esausti. La giunta guidata dal generale Than Shwe, che dal 1962 tiene il paese sotto il più rigido e crudele controllo, è riuscito nell’intento di filtrare chiunque avesse intenzione di assistere la popolazione. La giunta ha annunciato pochi giorni fa, durante una riunione con agenzie di aiuti americane e gruppi di assistenza privati, le nuove linee guida per portare soccorso alle vittime. Un decalogo che prevede continui contatti con le autorità locali e infinite pratiche burocratiche che non fanno altro che allungare i tempi e sfiancare le organizzazioni umanitarie. Solo i paesi dell’ASEAN hanno avuto accesso tramite personale e contributi alle zone più colpite, oltre a poche grandi organizzazioni umanitarie, pedinate notte e giorno da funzionari governativi. Il Gruppo Tripartito, composto da membri dell’ASEAN, ONU e alti funzionari birmani sta ancora procedendo ad una perlustrazione del delta e delle zone intorno a Rangoon, ma la reale efficacia di tale concessione politica da parte della giunta è ancora tutta da verificare.

La polizia ha iniziato a sequestrare parabole satellitari e dvd amatoriali con video sulla devastazione del ciclone e le sofferenze della popolazione che si vendono per le strade di Rangoon. La giunta ha avvertito anche che ricevere aiuti da volontari o donatori privati è pericoloso e chiunque parli con le agenzie di stampa straniere viene subito portato in caserma e interrogato. Dopo la Corea del Nord, la Birmania detiene il triste primato di governo più spietato e incapace di gestire i propri affari interni, o almeno quelli di gran parte dei suoi cittadini. Perché i generali e la loro cricca di affari ne fanno tanti e anche lucrosi. Dalle gemme al legno, fino all’ormai ancora più prezioso petrolio.

Negli ultimi 20 anni gli investimenti stranieri arrivavano da Europa e Stati Uniti, mentre ultimamente i principali partner sono locali: Cina, India, Malaysia, Singapore, Corea del Sud, Thailandia. Petrolio e gas e altre risorse estrattive sono gli obiettivi principali di tali investimenti. Gli affari permettono al regime militare di rafforzarsi e aumentare la repressione sui birmani.
La maggior parte degli investimenti avviene tramite joint ventures con i militari o attraverso compagnie direttamente controllate e operate sempre da loro.

In pratica l’economia è controllata da diversi conglomerati industriali, tra cui Union of Myanmar Economic Holdings (UMEH), il Myanmar Economic Corporation (MEC), e il Myanmar Oil and Gas Enterprise (MOGE). Le entrate del MEC provengono da privati che operano nel settore difesa. L’UMEH invece serve principalmente a dare un secondo stipendio al personale militare e le proprie famiglie. Il MOGE è la compagnia locale di joint venture per gli investimenti esteri in petrolio e gas, ed è diventata la maggiore risorsa finanziaria del regime.

Negli ultimi due anni ci sono state scoperte di giacimenti di gas onshore e offshore che hanno reso questo il principale settore per le esportazioni del paese. La produzione e i profitti hanno preso il volo, e si prevede che possano ulteriormente crescere grazie al costo sempre più elevato dei carburanti. Nonostante ciò, la popolazione locale non ha minimamente goduto dei benefici di questo settore. Il problema dell’economia birmana sta nel fatto che gli investimenti nel settore del gas e del petrolio, oltre che delle altre industrie estrattive, non generano manodopera impiegatizia ne assicurano sostanziali trasferimenti di skills e tecnologia alla popolazione locale. Ciò significa che a godere delle entrate di queste attività sono i generali e le loro famiglie.

Dietro tutto questo gli interessi economici e geopolitici delle potenze occidentali, gelosi degli affari che la giunta conduce con i suoi vicini, pronti a sostenerla di fronte alle effimere pressioni e sanzioni che, Francia in testa, provengono dai più altisonanti organi internazionali. Ma tra una riunione e un’altra, tra una dichiarazione e un comunicato congiunto, la gente continua a soffrire e morire.

Oltre il 25% dei 56 milioni di abitanti del Myanmar vive con meno di un dollaro al giorno. L’elettricità e l’acqua corrente scarseggia anche nelle città di media dimensione, e nell’ultimo anno tutti i prezzi hanno subito un’impennata esponenziale. Da primo esportatore mondiale di riso ora è diffusa la malnutrizione infantile. Il sistema sanitario assiste solo chi può pagare: ammalarsi oggi vuol dire indebitarsi a vita oppure lasciarci la pelle. La marcia delle teste rasate dei monaci nel tradizionale abito rosso che a settembre 2007 sono scesi per le strade a farsi massacrare dalle autorità birmane, siamo davvero certi che sia stata scatenata dal desiderio di democrazia piuttosto che da contingenti problemi economici?

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy