di Eugenio Roscini Vitali

Ehud Olmert esce di scena e lo fa nel peggiore dei modi, con uno scandalo per corruzione e con il 77% di israeliani che si dicono scontenti del suo operato. Lascia la carica di premier e la guida di Kadima, il partito nato nel 2005 dallo sforzo personale di uno degli ultimi simboli di una generazione di soldati e combattenti, Ariel Sharon. Macellaio dei palestinesi in ogni epoca della sua personale storia militare e politica, nella politica interna israeliana Sharon è stato l’uomo politico che più di ogni altro ha saputo riempire il vuoto ideologico che si era creato dopo il fallimentare vertice di Camp David, trasformando il centro nel luogo d’incontro tra chi ha sempre creduto che l’unica strada per la pace è la rinuncia ai territori occupati e chi, invece, coltiva ancora il sogno sionista di una grande nazione ebraica. Mentre per la nomina del nuovo primo ministro Israele si prepara ad affrontare un lungo e difficile processo politico che entro i primi mesi del 2009 dovrebbe portare il Paese alle urne, la corsa per la guida di Kadima è già aperta. Al congresso del prossimo 17 settembre verrà deciso chi sarà il candidato di centro alle prossime elezioni politiche; alle votazioni parteciperanno più della metà dei 70 mila membri del partito e dalle ultime stime lo scarto dei voti potrebbe non raggiungere le mille preferenze. Una lotta difficile quindi e dal risultato per nulla scontato; uno scontro che rischia di fare implodere e spaccare il giovane partito centrista, unica vera novità politica che Israele ha saputo produrre negli ultimi dieci anni. Per ora i candidati alla successione di Olmert sono due: il ministro degli esteri, Tzipi Livni, e il vice premier e ministro dei Trasporti, Shaul Mofaz.

Nel confronto gli analisti israeliani danno come favorita la signora Livni: la donna più potente di Israele dagli anni di Golda Meir e il naturale erede politico di Ariel Sharon. Figlia di due attivisti dell’Irgun Tzvai-Leumi, il gruppo paramilitare sionista che tra 1931 e il 1948 ha operato e combattuto in Palestina, Tzipora Malka Livni non è certo il tipo che inneggia alla pace ad ogni costo ma da quando, nel 1999, è entrata in politica con il Likud, è molto cambiata. Dopo aver sostenuto le decisioni di Sharon in merito al ritiro israeliano da Gaza, nel 2005 ha partecipato alla nascita di Kadima e ha aderito al piano a lungo termine che prevede la creazione di due Stati; un progetto in cui crede e per il quale ha lavorato e lavora costantemente, cosa che gli ha permesso di guadagnare ampi consensi sia in Patria che all’estero. La vittoria però non è scontata e l’ondata di attentati che negli ultimi mesi ha colpito Gerusalemme potrebbe influenzare le scelte della base, rilanciando così l’ala destra del partito e con essa le chance di Mofaz.

Molto meno moderato della signora Livni, l’ex generale non ha mai manifestato doti centriste: lo ha dimostrato con la scelta fatta il 21 novembre 2005, quando ha preferito candidarsi alla leadership del Likud piuttosto che accettare l’offerta di Sharon e partecipare alla creazioni di Kadima, alla quale ha aderito solo dopo aver capito che spodestare Netanyahu era una cosa praticamente impossibile. Il pensiero politico di Shaul Mofaz è riassunto nella sua carriera: nato a Teheran nel 1948 ed immigrato in Israele nel 1957, nel 1998 è stato nominato Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) dall’allora premier Netanyahu; nel 2002 il primo ministro Ariel Sharon lo ha voluto alla guida del più prestigioso dicastero israeliano, il Ministero della Difesa; nel 2006 Olmert lo ha nominato ministro dei Trasporti. Ha combattuto la guerra dei Sei giorni e quella Yom Kippur; ha partecipato alla Guerra in Libano del 1962, all’operazione Entebe e ha comandato le IDF in Cisgiordania. Nei confronti di Yasser Arafat ha sempre sostenuto la politica dell’isolamento e nel 1999 ha preparato l’esercito ad affrontare l’esplosione di violenza che avrebbe portato alla seconda Intifada.

Pur godendo del sostegno di un’ampia fascia dell’opinione pubblica, Mofaz non ha però sempre raccolto giudizi positivi: la sinistra israeliana lo ha criticato per i metodi radicali con i quali ha spesso affrontato il problema palestinese e per il frequente uso dei bulldozer nei territori occupati. Famoso per le basse perdite subite e per la rapidità delle operazioni portate dai suoi uomini nella Striscia di Gaza, da ministro della Difesa si è rifiutato di sottoscrivere qualsiasi compromesso con Hamas o con i movimenti radicali arabo-palestinesi. Per quanto riguarda l’Iran la posizione di Mofaz è sempre stata molto chiara: nel giugno scorso ha dichiarato che contro il progetto nucleare iraniano l’opzione militare è un fatto inevitabile, soprattutto per l’inefficacia delle alternative. Secondo l’ex generale, il Paese deve essere difeso con le armi da ogni tipo di minaccia, incluso Hezbollah, Hamas o Paesi quali la Siria; Mofaz ha spesso accusato Damasco di essere uno dei principali nemici di Israele e fornitore di armi del movimento sciita guidato da Hasan Nasrallah.

Se è vero che Netanyahu viene indicato come il futuro primo ministro israeliano, il leader del Likud sa benissimo che andare ad elezioni anticipate comporta sempre dei rischi, soprattutto quando il candidato della coalizione di centro si chiama Tzipi Livni. I sondaggi danno per ora Netanyahu al 36%, la signora Livni al 25% e Barak, candidato dei Laburisti, al 12%; il capo dell’opposizione vede crescere il vantaggio nel caso in cui la leadership di Kadima andasse a Mofaz: Netanyahu al 37%, Barak al 15% e Mofaz al 12%, mentre più del 27% non voterebbe per nessuno di questi candidati. A questo punto non è escluso che, visti i sondaggi, Netanyahu non decida di usare tutta la sua influenza per cercare di portare Mofaz alla guida di Kadima. Un avversario sicuramente meno scomodo e con un programma politico per molti aspetti simile: l’alternativa militare contro Teheran; la forte diffidenza nei confronti della Siria; la linea dura contro gli sciiti libanesi e i palestinesi; la strategia degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Tutti fattori dai quali potrebbe scaturire un’alleanza o accordo post-elettorare che cambierebbe completamente lo scenario politico israeliano e influirebbe in modo determinante nel processo di pace con i palestinese e nei rapporti con il mondo arabo.

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