di Carlo Benedetti

MOSCA. La crisi che sconvolge la terra del Caucaso si sposta nel mare, dal momento che la flotta russa si aggira sullo specchio d’acqua dove si affaccia l’Abchasia. E le conseguenze possono essere immense ed anche disastrose perchè l’esercito di Kiev ha annunciato che controllerà che la flotta russa nel Mar Nero - basata nel porto ucraino di Sebastopoli - rispetti le nuove restrizioni imposte dal presidente di Kiev, Viktor Yushcenko. Questo vuol dire che le “porte” del mare potranno essere aperte solo se gli ucraini lo consentiranno. Ai russi che “utilizzano” le basi navali della costa non si presentano, al momento, alternative. Perchè se lasciano i porti dovranno dare assicurazione agli ucraini che le missioni non saranno di guerra. Spetterà a Kiev decidere. E così torna ad aprirsi un contenzioso (del resto mai sopito) tra l’Ucraina post-sovietica e il Cremlino. Il teatro di questa vicenda politica, militare e diplomatica comprende quattrocentotredicimila chilometri quadrati di mare fra l’Europa orientale e l’Asia con sbocchi col Mediterraneo, il mar di Marmara, i Dardanelli e il mare d’Azov. E inoltre: con fiumi come Danubio, Dnestr, Bug, Dnepr, Don e con un bacino dominato da basi navali russe di importanza mondiale come quelle di Sevastopoli, Simferopoli, Novorossiisk. La contesa non riguarda tanto il controllo del mare, quanto la permanenza delle basi che la marina da guerra di Mosca aveva al tempo dell’Urss in località che erano solo “sovietiche” e quindi non potevano essere considerate nè russe, nè ucraine. Stesso Paese per tutti e stessa potenza militare.

Arrivò poi quell’8 dicembre del 1991 quando tre presidenti di spicco dell’allora Unione Sovietica (Eltsin per la Russia, Kravciuk per l’Ucraina e Shuskevic per la Bielorussia) si riunirono a Belavezha, in Bielorussia, per sancire la fine dell’Unione. Nessuno ha mai saputo in concreto cosa si siano detti. Ma una cosa è certa: dimenticarono di esaminare nel concreto le conseguenze del “gesto” e soprattutto non tennero conto del fattore militare collegato alla flotta sovietica. Che aveva (ed ha) le sue basi di forza nel Baltico, nel mare del Nord e, in particolare, nel mare Nero.

E’ avvenuto così che per anni i governi di Mosca e di Kiev si sono trovati coinvolti nello scontro sulla “proprietà” della flotta e alla conseguente gestione delle basi. Perché dal punto di vista geografico l’Ucraina aveva fatto il pieno, aiutata anche da quel lontano gesto di Krusciov che aveva regalato a Kiev la penisola di Crimea. Ed ecco che - nonostante trattative e accordi di varia natura - la questione riesplode e la flotta russa del Mar Nero (quella che contrastò la Sesta flotta americana durante la Guerra fredda) si trova di nuovo sotto esame da parte degli strateghi militari dell’Ucraina. Gli accordi precedenti erano più o meno chiari: alla Russia era toccato l'82 per cento della flotta (83 navi e 16 sottomarini) e all'Ucraina, che non aveva bisogno di un'imponente marina militare, il restante 18 per cento.

Si era trovata anche una soluzione per la questione più spinosa, quella sul dove avrebbe calato le ancore la flotta di Mosca. Un fattore di grande importanza strategica, dal momento che la Russia, pur avendo un buon tratto di costa sul mar Nero, non ha porti e infrastrutture adatte; inoltre ha sempre preferito di non abbandonare la base di Sebastopoli, per la quale prova un attaccamento storico, nato nell'Ottocento con la guerra di Crimea. Le diplomazie russe e ucraine, pertanto, hanno lavorato per riparare ai danni causati da quel fatidico incontro dell’8 dicembre 1991.

E così, constatato l’ovvio (Sebastopoli è in Ucraina), Kiev decide di concedere alla Russia un contratto d'affitto di 20 anni sulla maggior parte del porto di Sebastopoli (che continua a ospitare, comunque, pure la flotta ucraina) pagando circa 100 milioni di dollari l'anno. Tutto chiaro, quindi? No. Perchè proprio nel momento in cui il Cremlino muove le sue navi per portarle verso i lidi dell’Abchasia, Kiev torna sull’intera questione della flotta russa del mare Nero.

E si scopre che la teoria della sovranità limitata ha fatto scuola, dal momento che si parla di “restrizioni” che dovrebbero essere imposte alla marina militare russa. E non si tratta di una battuta tipica della propaganda di questa guerra “fredda-calda”. Parola di Sergej Kirichenko, comandante in capo delle forze armate dell’Ucraina che rivela, senza mezzi termini, le tendenze “atlantiche” di Kiev.

Di qui l’allarme dei russi i quali hanno già avuto modo di conoscere il progetto di legge sui preparativi per il ritiro della Flotta russa del Mar Nero dal territorio della Crimea, approntato dal presidente Yushenko. Questo vuol dire che il sottofondo politico dell’azione consiste nel rimuovere quanto prima le barriere sulla via verso la NATO. In questo quadro geopolitico i media russi - dalle Izvestija alla Nezavisimaja Gazeta - tornano a ricordare che il Trattato sulla presenza dei marinai russi in Ucraina era stato concluso nel 1997, prevedendo che le navi della Flotta russa del Mar Nero “hanno come base Sebastopoli, fino al 2017”.

Ma ora le azioni dell’Ucraina appaiono in stridente contrasto con lo status giuridico internazionale del Paese. Anzi: minano il partenariato strategico tra la Russia e l’Ucraina fissato nel Trattato congiunto di amicizia e cooperazione. E mentre lo scontro diplomatico va avanti, la politica geomilitare della Russia non si ferma. Le navi da guerra che erano all’ancora a Sebastopoli sono arrivate nello specchio d‘acqua dell’Abkhazia. Quanto alla Nato, che dovrebbe promuovere l’Ucraina, il movimento “antiatlantico” che si registra in Crimea conta già un buon 70% di adesioni.

Ma questo non ferma la marcia di Yushenko il quale - come un bravo allievo degli americani - si batte contro la Russia. E dalla sponda romena gli fa eco il presidente Basescu, che in passato non ha esitato ad accusare la Russia di voler trasformare il Mar Nero in “un lago russo”. E’ chiaro che per Mosca il fronte si allarga e il mare si fa sempre più nero.

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