di Michele Paris

Erano sostanzialmente due gli obiettivi che Barack Obama si era imposto di raggiungere con il discorso di accettazione destinato a chiudere la Convention democratica giovedì a Denver in pieno prime-time televisivo per il pubblico americano. Da un lato dare forma concreta a quella promessa di cambiamento che lo aveva proiettato al comando delle primarie durante i primi mesi dell’anno; dall’altro dimostrare di poter fronteggiare John McCain senza timori sui temi della politica estera e della sicurezza nazionale. Nonostante non siano stati fugati i dubbi di quanti all’interno del suo partito temono che gran parte dell’elettorato statunitense ancora non abbia un’idea totalmente chiara di chi sia veramente questo 47enne senatore afro-americano dell’Illinois, il suo straordinario talento di oratore gli ha permesso tutto sommato di risolvere positivamente una quattro giorni di Convention che si era aperta prima con l’investitura ufficiale del vecchio, e malato, Ted Kennedy e proseguita successivamente con il messaggio congiunto di unità dei coniugi Clinton. Gran parte del discorso che Obama ha tenuto davanti a oltre 80.000 sostenitori all’interno dell’Invesco Field, stadio solitamente dedicato alle esibizioni dei Denver Broncos, squadra di football della capitale del Colorado, è stato dedicato alla descrizione delle sofferenze e delle battaglie che l’americano medio sta affrontando in un periodo di crisi economica globale. Gli attacchi di parte repubblicana d’altra parte negli ultimi tempi si erano concentrati proprio nel disegnare il profilo di un candidato democratico lontano dai bisogni e dai problemi quotidiani della gente comune.

Certo non basterà un discorso, sia pure così intenso, a risolvere le difficoltà di Obama in quegli Stati del Midwest che lo hanno quasi sempre visto capitolare di fronte a Hillary durante le primarie. Riportare il dibattito sugli stenti dell’economia USA, assieme al contributo del running mate Joe Biden, vecchio combattente originario di una famiglia irlandese della Pennsylvania, può però portare qualche effetto benefico nei rapporti con una parte della working-class bianca che peraltro nasconde a malapena l’imbarazzo suscitato dal colore della pelle di Obama dietro la scusa di non gradire un candidato troppo liberal.

Proprio la delicata questione della razza è stata abilmente evitata, o quanto meno soltanto evocata, nel riferimento al famoso discorso “I have a dream”, ricordato da Obama solo in chiusura del suo intervento, che Martin Luther King tenne esattamente 45 anni fa di fronte a centinaia di migliaia di americani al Lincoln Memorial di Washington. Il compito di ricordare l’importanza di questa giornata per la comunità afro-americana e i progressi compiuti, ma anche le contraddizioni ancora persistenti nella società statunitense, da quel lontano 28 agosto 1963 è stato affidato così ad altri esponenti democratici che hanno preceduto Obama sul palco, primo fra tutti il deputato della Georgia John Lewis, ex leader del Movimento per i Diritti Civili ed unico oratore ancora in vita dei dieci che parlarono alla folla 45 anni fa. Obama ha preferito, per necessità, evitare il rischio, peraltro mai corso seriamente durante tutta la campagna elettorale, di sposare l’immagine del politico nero infuriato contro il potere dei bianchi per trascendere invece le controversie razziali e privilegiare un messaggio di unità simbolizzato da un riscatto del sogno americano.

C’era poi la caricatura di politico più vicino alle vuote celebrità hollywoodiane che alla sostanza delle questioni che affliggono gli Stati Uniti da rispedire al mittente (repubblicano). Obama lo ha fatto connettendo la sua esperienza personale e quella della sua famiglia alle talvolta drammatiche vicende con le quali è entrato in contatto durante questi mesi di campagna elettorale. Ecco allora apparire, in uno slancio preso a prestito dalla retorica populista clintoniana, l’immagine dell’operaio disoccupato che fa tornare alla mente i primi anni della sua maturità a Chicago, o quella della donna che prova a dar vita alla sua piccola attività imprenditoriale accostarsi agli ostacoli affrontati da una nonna che fu gratificata tardivamente con un ruolo direttivo nell’azienda in cui lavorava dopo ripetute promozioni svanite per il solo fatto di essere una donna.

“La ricchezza del nostro paese non si misura nel numero di miliardari americani che appaiono nella classifica dei 500 uomini più ricchi del mondo della rivista Forbes”, ha ammonito Obama facendo un velato riferimento alla recente gaffe di McCain, il quale durante un’intervista ha ammesso di non conoscere esattamente il numero di case possedute. “Il progresso economico passa bensì anche e soprattutto attraverso la possibilità per chiunque di trasformare una buona idea in una fiorente impresa o per una qualsiasi cameriera di potersi prendere un giorno di permesso da dedicare al figlio malato senza il timore di perdere il proprio posto. Ciò che conta veramente è un sistema economco che rispetti la dignità del lavoro”.

Il terreno più rischioso per Obama era tuttavia quello legato alla sicurezza nazionale e alla minaccia del terrorismo che quattro anni fa aiutò non poco George W. Bush a conquistare il suo secondo mandato ai danni di un forse troppo arrendevole John Kerry. La volontà dichiarata di McCain di inseguire Bin Laden fino all’inferno trasformata nell’incapacità di seguirlo persino nella grotta in cui il terrorista continua a nascondersi. Sostenere con forza l’invasione dell’Iraq per combattere una rete terroristica che ha contatti invece in 80 altri paesi del mondo. Spacciarsi per strenuo difensore della causa israeliana nei confronti della minaccia dell’Iran soltanto alzando i toni dello scontro nelle dichiarazioni fatte da Washington verso il governo di quest’ultimo paese. Tutto questo, per Obama, significa proseguire sulla strada tracciata negli ultimi otto anni da Bush ed è ciò che ha scelto di fare John McCain se eletto. Ma ciò è ben lontano dall’essere la ricetta di cui ha bisogno l’America per un vero cambiamento. “Valiamo molto di più di questi ultimi otto anni. Siamo un paese molto migliore di così”.

Politica estera e lotta alla crisi economica sono costantemente al centro del discorso di Obama. Nel primo caso il candidato repubblicano è sempre accostato alla fallimentare strategia dell’attuale inquilino della casa Bianca. Nel secondo, attacca Obama ribaltando l’accusa rivoltagli dall’avversario, è McCain ad essere “out of touch”, lontano dal capire i bisogni degli americani comuni. “Non è che a John McCain non interessi di voi. È soltanto che John McCain non può capire”. Siamo ben lontani dall’indicazione data dallo staff di Kerry nell’estate del 2004 a Boston a tutti gli oratori della Convention di tenersi lontani da qualsiasi risposta troppo aggressiva nei confronti delle accuse repubblicane. Una inversione di rotta significativa e inevitabile per un partito Democratico oggi ben diverso da quello uscito a pezzi dalle ultime presidenziali. Un partito ben deciso ad evitare le trappole del 2004 ed un candidato, sia pure proiettato sulla scena politica nazionale soprattutto grazie alla volontà dichiarata di trascendere le divisioni e di voler mettersi alle spalle il settarismo di Washington, attento a non lasciare senza risposta qualsiasi attacco o insinuazione dei repubblicani alla Karl Rove.

Il tradizionale discorso finale della Convention da parte del candidato alla presidenza è andato in scena quest’anno in una location all’aperto per la terza volta nella storia del partito Democratico. Significativamente, pur fronteggiando il rischio di apparire troppo distante di fronte ad una sterminata platea come quella dell’Invesco Field, Obama e il suo staff hanno scelto di abbandonare il Pepsi Center di Denver, dove si erano svolte le pratiche durante i primi tre giorni della Convention, seguendo l’esempio di Franklin D. Roosevelt e John F. Kennedy per dare la possibilità ad un pubblico più vasto di vivere di persona un momento storico. Roosevelt nel 1936, eletto in quell’occasione in maniera ufficiale candidato democratico alla presidenza per acclamazione come è accaduto qualche giorno fa a Obama, parlò di fronte a qualcosa come 100.000 persone a Philadelphia, mentre JFK scelse nel 1960 il Los Angeles Memorial Coliseum dove, a differenza di quest’anno, quasi la metà dei posti disponibili rimase però inoccupata.

A mitigare almeno per qualche ora la tensione tra i due schieramenti è giunto poi a sorpresa poco dopo la fine della Convention democratica uno spot televisivo di congratulazioni per la performance di Obama da parte di McCain in prima persona. “Job well done”. Così si è insolitamente complimentato il Senatore dell’Arizona nei confronti dell’avversario annunciando una breve tregua e promettendo però di tornare a confrontarsi con l’avversario già dall’indomani. Ironia della sorte, la buona azione di McCain si è risolta in una parodia involontaria. Subito dopo aver messo in onda lo spot, che si chiude con un’immagine in primo piano di John McCain, la CNN ha trasmesso infatti una pubblicità di un piano di investimenti in fondi pensione per anziani della compagnia Mutual of Omaha e successivamente un’altra ancora che prometteva un rimedio sicuro contro la calvizie.

Con i media d’oltreoceano mai come in questo momento smaniosi di notizie fresche su un’estenuante campagna elettorale che ha peraltro già messo a dura prova l’elettorato americano, c’è da scommettere che l’attenzione sui fatti della Convention democratica svanirà in fretta lasciando alle urne nel mese di novembre il responso di quanto la prestazione di Obama sia stata veramente efficace. La palla passerà ora infatti in campo repubblicano. John McCain ha annunciato poche ore dopo di aver scelto a sorpresa la giovanissima governatrice dell’Alaska Sarah Palin come candidata alla vice-presidenza e da lunedì prossimo le luci si accenderanno sulla Convention del “G.O.P. Party”, di scena nelle città gemelle di Minneapolis e St.Paul, nel Minnesota.

L’imminente approdo sulla costa meridionale degli USA del ciclone Gustav dal Golfo del Messico ha sollevato tuttavia i timori di molti esponenti repubblicani di primo piano, tra cui proprio George W. Bush e il governatore della Louisiana Bobby Jindal, i quali starebbero valutando di cancellare la loro presenza alla Convention nel timore del ripetersi dei fatti seguiti all’uragano Katrina del 2005. Qualche giornale americano ha rivelato che l’apertura della Convention potrebbe così slittare di qualche giorno, anche se appare difficile credere che nell’entourage del candidato repubblicano alla successione di Bush non vi sia chi faccia il tifo per la mancata apparizione dell’attuale presidente a Minneapolis.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy