di Eugenio Roscini Vitali

Il presidente americano Barack Obama è pronto a fare pressioni affinché i leader dei maggiori partiti israeliani diano il via alla formazione di un governo di unità nazionale, unico modo per uscire dall’empasse istituzionale nel quale è caduto lo Stato ebraico e per fornire agli Usa un partner credibile per proseguire (o riprendere) i colloqui di pace con i palestinesi. E’ questo il primo vero cambiamento nella politica estera americana: forzare la mano nel tentativo di risolvere problemi invalicabili, senza pregiudizi o prese di posizione precostituite. La sintesi sta proprio nello slogan che ha accompagnato la campagna elettorale israeliana, il messaggio che ha dominato i cartelloni pubblicitari che ritraevano Tzipi Livni, Ehud Barak e Benjamin “Bibi” Netanyahu: “Il momento della verità”. L’equilibrio è tale che a questo punto l’unica “verità” nella meno auspicata delle soluzioni, una coesistenza forzata tra le diverse anime di Israele e che comunque escluda le frange più estreme, quelle più radicali, quelle con le quali neanche Barak Obama è disposto a trattare. L’indicazione della Casa Bianca arriva nel momento in cui dalla capitale israeliana arrivano indiscrezioni secondo le quali il presidente Shimon Peres starebbe per dare al leader del Likud, Benjamin Netanyahu, l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Una possibilità che nei numeri sembra realizzabile, ma che di fatto rappresenta uno scippo al vero vincitore delle elezioni, Tzipi Livni, e sposta Israele su un’asse politico inconciliabile con i piani della nuova amministrazione americana. Le alternative però non sono molte ed in questo primo approccio alla complessa realtà del vicino Medio Oriente, Obama potrebbe trovare non pochi ostacoli. Sul tavolo due opzioni: accettare che a Gerusalemme si insedi un governo di destra che comprende i partiti ultra-nazionalisti ed ortodossi, il che significa fine dei colloqui di pace con i palestinesi; aiutare la nascita di un governo di unità nazionale che prosegua sulla strada intrapresa ad Annapolis.

Con i suoi 28 seggi e forte del fatto che a vincere le elezioni sia stato Kadima, il ministro degli Esteri ha già dichiarato di non poter accettare il ruolo di ruota di scorta di un governo presieduto da Netanyahu; l’esperienza le ha insegnato che essere il numero due non è conveniente, soprattutto perché in quella posizione non sarebbe in grado di incidere sull’azione di governo. Sedendosi allo stesso tavolo dei nazionalisti, la Livni rischierebbe inoltre di perdere gran parte dei consensi espressi dall’elettorato moderato e dagli indecisi. Pur ammettendo che in un sistema politico basato sulle coalizioni quello che conta è la maggioranza parlamentare e che il risultato elettorale ha messo in condizione il Likud di raccogliere 65 dei 120 deputati della Knesset, il leader di Kadima ha messo in guardia il premier Ehud Olmert dall’accettare una qualsiasi trattativa che non rappresenta le posizioni del partito.

Per Netanyahu la poltrona di primo ministro non è l’unico problema, rimane infatti aperta la questione degli equilibri. Accettando di guidare un governo formato da Likud, Kadima e Laburisti, si ritroverebbe in Parlamento con una maggioranza all’interno della quale la destra risulterebbe in minoranza e con una minoranza formata in gran parte da partiti che, sentendosi traditi, si lascerebbero andare ad un’opposizione più che mai agguerrita. Sarebbe quindi necessario portare all’interno della coalizione un altro alleato: la quarta forza politica del paese, il Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, o i maggiori partiti religiosi di destra.

Visti i paletti messi da Kadima la prima soluzione sembra però impraticabile; la conferma arriva dallo stesso ministro Meir Sheetrit, che dai microfoni di una radio locale ha riaffermato le posizioni del suo partito: nessuna partecipazione ad un governo che comprenda partiti di estrema destra. Nel secondo caso sono gli stessi leader politici a storcere il naso. Per contrastare la formazione di Lieberman, lo Shas di Eli Yishai e il partito della Torah Unita nel Giudaismo di Yaakov Litzman stanno dando vita ad una coalizione ultra-ortodossa che, da quanto riportato dalla stampa israeliana, non esclude una coabitazione con il Yisrael Beitenu o la partecipazione ad un governo guidato da Netanyahu ma non è disposta a rinunciare all’identità religiosa che costituisce le radici fondamentali dello Stato ebraico. Ai 15 seggi di Lieberman, l’alleanza Yishai-Litzman contrappone 16 deputati ai quali si potrebbero aggiungere i quattro rappresentanti dell’Unità Nazionale di Ya'akov Katz.

Anche se in passato Lieberman, una volta al governo, si è comportato in modo del tutto diverso da quanto fatto in campagna elettorale, è chiaro che la svolta a destra non piacere a nessuno dei due leader israeliani. In queste circostanze un intervento americano diventa quindi vitale, soprattutto perchè da dietro le quinte l’amministrazione Obama può giocare un ruolo determinante affinché in Israele emerga un’alleanza stabile. Il primo ad avere bisogno dell’aiuto del presidente americano è proprio Netanyahu che deve trovare il modo di ammorbidire le posizioni della Livni ed uscire dalla soluzione targata Yishai-Litzman. Ancora scioccato dalla fallimentare esperienze di premer (18 giugno 1996 - 6 luglio 1999), quando perse il supporto della degli ultra-nazionalisti e dei partiti religiosi a causa delle sue concessioni ai palestinesi di Hebron e per i negoziati con Arafat, il leader del Likud preferisce sicuramente discutere con Kadima che portare avanti un’alleanza difficile ed ingombrante che nel futuro si potrebbe trasformare in una pesante eredità.

Dell’intervento della Casa Bianca potrebbe approfittare anhe la Livni, che in questo momento ha ben poche via d’uscita e deve decidere se rinunciare o meno al proprio orgoglio. Se il ministro degli Esteri rifiutasse la soluzione del governo di unità nazionale, e quindi il sacrificio al ruolo di comprimaria, il partito fondato nel 2005 da Ariel Sharon rischierebbe la scissione e quindi la sconfitta politica.

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