di Michele Paris

Lontano da una Washington ancora travagliata dalle diatribe tra democratici e repubblicani, all’indomani dell’approvazione del piano di stimolo all’economia da 787 miliardi di dollari, il presidente degli Stati Uniti ha posto a Denver la propria firma su un provvedimento molto contrastato e ben diverso nella sua forma finale da quella inizialmente auspicata dalla nuova amministrazione. Nonostante il piano Obama abbia trovato il sostegno al Congresso di appena tre esponenti dell’opposizione, configurando un apparente compattamento dei ranghi in casa repubblicana, lo sforzo bipartisan – in gran parte fallito – del neo inquilino della Casa Bianca, ha messo in luce divisioni non trascurabili all’interno del partito che fu di George W. Bush. Da un lato una delegazione parlamentare sempre più rischiosamente arroccata sui tradizionali valori del conservatorismo repubblicano, dall’altro una parte dell’elettorato e degli amministratori locali orientati verso un pragmatismo dettato dai tempi di crisi e decisamente più in sintonia con l’azione presidenziale. Ad essersi dissociati già da tempo dai propri compagni di partito alla Camera dei Rappresentanti e al Senato sono stati 17 dei 22 governatori repubblicani, spesso alla guida di uffici statali in pesanti difficoltà finanziarie. I governatori americani, costretti di questi tempi a far quadrare bilanci in rosso e a fare i conti con una richiesta sempre maggiore di servizi e prestazioni sociali di base per i propri cittadini colpiti dalla crisi economica, si sono dimostrati molto più disponibili ad appoggiare la politica di spesa adottata dalla Casa Bianca e a valutare persino sporadici aumenti del carico fiscale, vera e propria eresia per l’ala repubblicana più conservatrice. Senza contare poi la necessità di scendere a compromessi con i parlamenti statali, non di rado guidati da una maggioranza democratica.

Proprio sui governatori più propensi al dialogo – oltre che su un’opinione pubblica tuttora schierata in maggioranza a fianco del presidente – Barack Obama ha puntato per fare breccia in un’opposizione altrimenti estremamente scettica sull’opportunità di un pacchetto di stimolo composto in prevalenza da nuovi capitoli di spesa. I primi a dimostrare un atteggiamento pragmatico in questo senso sono stati i governatori Arnold Schwarzenegger della California – alle prese con un pauroso deficit di bilancio nel proprio stato – seguito da Mary Jodi Rell del Connecticut – già distintasi in passato per decisioni audaci, come l’introduzione nel 2005 delle unioni civili tra coppie dello stesso sesso – da Jim Douglas del Vermont e Charlie Crist della Florida, quest’ultimo già acceso sostenitore di John McCain alle presidenziali dello scorso anno e apparso invece recentemente a fianco di Obama nel corso di un evento pubblico a sostegno del proprio progetto.

Gli aiuti agli stati in ristrettezze finanziarie previsti nei prossimi due anni sono dell’ordine di 135 miliardi di dollari. Una somma considerevole che tuttavia, secondo alcune valutazioni, sarebbe in grado di coprire poco meno della metà del rosso nei bilanci complessivi delle amministrazioni dei 50 stati americani. La spesa stanziata, in ogni caso, verrà destinata al sostegno delle spese per scuola, assistenza sanitaria (principalmente a “Medicaid”, il programma pubblico rivolto ai redditi più bassi), nuove infrastrutture e sostegno ai cittadini in difficoltà nel pagamento dei mutui. Ciò che sembra caratterizzare le due anime del Partito Repubblicano è dunque il pragmatismo di chi gestisce il potere a livello locale ed un’ideologica battaglia a tutto campo contro ogni genere di spesa federale.

Una posizione intransigente quella dei Congressmen repubblicani, fortemente sostenuta da due dei nuovi leader di un partito ancora alla ricerca della propria identità dopo la batosta elettorale di novembre: Michael Steele, primo “chairman” di colore del Partito Repubblicano, ed Eric Cantor, coordinatore del gruppo parlamentare di minoranza alla Camera dei Rappresentanti (“Minority Whip”). L’irrigidimento delle posizioni repubblicane è apparso in tutta la sua evidenza durante il dibattito intorno al piano Obama, definito a turno dai vari esponenti dell’opposizione come “un ammasso di spazzatura”, “un provvedimento che creerà un rapporto di dipendenza dal governo federale da parte dei cittadini” o, dallo stesso John McCain, “nient’altro che un furto generazionale”.

Al di là degli slogan che già preannunciano con largo anticipo la campagna elettorale per le elezioni di medio termine dell’autunno 2010 – nelle quali verrà rinnovata l’intera Camera dei Rappresentanti e 36 dei 100 seggi del Senato – la condotta dei repubblicani al Congresso appare totalmente modellata intorno all’ala più conservatrice che vede la possibilità di un rilancio del proprio partito solo nel ritorno al tradizionale supporto del contenimento della spesa pubblica e nella visione dei tagli fiscali come panacea di tutti i mali. Senza minimamente inquietarsi peraltro del fatto che proprio l’adozione di quest’ultima strategia negli otto anni dell’era Bush – ovviamente indirizzata a favore dei redditi più elevati – ha portato gli Stati Uniti ad una espansione incontrollata del proprio debito pubblico.

Il disegno è semplice: se il piano Obama non produrrà effetti positivi, i repubblicani potranno sostenere di aver messo in guardia il paese circa la sua inefficacia, nonostante abbiano fatto di tutto per svuotarlo di significato; se invece dovesse centrare l’obiettivo di invertire il declino dell’economia, si limiteranno a sperare che l’attenzione degli elettori nei prossimi due anni sia rivolta ad altri temi al centro del dibattito pubblico. Un comportamento rischioso quello dei leader repubblicani in parlamento che a ben guardare tuttavia sembra l’inevitabile conseguenza della drastica riduzione nel numero di membri del Congresso moderati provenienti dagli stati nord-orientali e dalla costa occidentale, a tutto vantaggio di rappresentanti più conservatori del sud del paese.

Sia pure esposti alle critiche rivolte loro dai propri colleghi di partito, i governatori repubblicani hanno così indirizzato addirittura una lettera al neopresidente, complimentandosi per l’approvazione del piano di rilancio dell’economia. Subito dopo il superamento dell’iter legislativo del provvedimento, molti di essi hanno dato il via alla promozione dei rispettivi progetti candidati al finanziamento federale, a cominciare dei governatori degli stati ultrarepubblicani di Utah (John Huntsman jr.) e Alabama (Bob Riley), entrambi alla ricerca di svariati miliardi di dollari da destinare alla costruzione di opere pubbliche che potrebbero creare migliaia di nuovi posto di lavoro.

Se il corteggiamento dei repubblicani al Congresso da parte di Obama non ha dato i frutti sperati, l’identico atteggiamento di apertura mostrato dal presidente nei confronti dei governatori, iniziato già a partire dalle settimane immediatamente successive alla vittoria elettorale, gli ha garantito al contrario un appoggio che potrebbe risultare fondamentale nella delicata fase di implementazione dei nuovi provvedimenti. L’ex senatore democratico Obama insomma – a detta di alcuni degli stessi governatori repubblicani – sembra addirittura un partner più affidabile agli occhi degli amministratori locali rispetto all’ex governatore repubblicano George W. Bush, ben poco disposto ad ascoltare le richieste di aiuto provenienti dagli stati in affanno nel corso dei suoi due mandati. Un cambiamento di scenario che gli elettori americani hanno mostrato di aver compreso prima di tutti, ma che i parlamentari repubblicani hanno deciso di ignorare, almeno per ora, a rischio di dover pagarne nuovamente le conseguenze a carissimo prezzo.

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