di Michele Paris

Il tradizionale appuntamento del discorso sullo Stato dell’Unione negli USA è giunto quest’anno nel momento più difficile del primo mandato di Obama. Con una disoccupazione superiore ai livelli di dodici mesi fa, una situazione economica tuttora precaria, molti nodi dell’ambizioso programma presidenziale non ancora sciolti e un indice di popolarità in caduta libera, l’inquilino della Casa Bianca ha cercato di barcamenarsi tra molte contraddizioni, cercando inutilmente di resuscitare quell’entusiasmo che lo aveva proiettato verso il trionfo nella campagna elettorale del 2008.

Di fronte ai membri dei due rami del Congresso americano, riuniti giudiziosamente alla Camera dei Rappresentanti, Obama ha invocato una più robusta azione legislativa, facendo appello ai democratici, così come all’opposizione repubblicana. Riconoscendo di sfuggita qualche errore commesso dalla sua amministrazione, il presidente, nel corso dell’intero discorso alla nazione, ha provato a ripristinare un’immagine di uomo del cambiamento, irrimediabilmente compromessa da un anno d’iniziative quasi sempre indirizzate alla difesa del privilegio di pochi.

Un esercizio di retorica, quello di Obama, che ha svelato chiaramente l’impossibilità da parte sua - e della sua maggioranza - di delineare e tanto meno perseguire un coerente progetto di riforma in grado di trasformare il sistema economico, politico e sociale americano. Pur promettendo che nell’anno appena iniziato l’obiettivo principale dell’azione governativa dovrà essere la riduzione del numero dei disoccupati - oltre 15 milioni secondo le imprecise stime ufficiali; quasi 4 milioni in più rispetto al gennaio 2009 - già si profilano le prime manovre per il contenimento del deficit pubblico, che verranno esposte a breve alla presentazione del budget per il prossimo anno.

Proprio la necessità di porre un freno alla crescita di una parte della spesa pubblica è la lezione nefasta ricavata dagli strateghi democratici dall’umiliante sconfitta incassata qualche giorno fa in Massachusetts nella speciale elezione per il seggio al Senato che fu di Ted Kennedy. Assecondando il lamento dei repubblicani che quotidianamente mettono in guardia da un’opinione pubblica preoccupata da un deficit enorme e dalla presunta prevaricazione delle prerogative del governo federale, Obama sembra intenzionato così a correre ai ripari, prefigurando una serie di nuovi tagli. Una mossa che si rivelerebbe non solo politicamente fallimentare, ma anche economicamente disastrosa con un’economia ancora lontana da una piena ripresa e gravata da una disoccupazione di massa.

Il cinismo di un presidente che nel suo discorso a camere unificate ha più volte fatto appello al “popolo americano” è apparso evidente quando ha proposto alcune limitate misure di sollievo alla classe media che ben difficilmente saranno approvate dal Congresso. A dicembre, infatti, la camera aveva approvato d’urgenza un modesto pacchetto da 154 miliardi di dollari con una serie di misure per combattere la disoccupazione, fatte di tagli alle tasse per le piccole imprese e incentivi al credito. La nuova legge tuttavia è da allora insabbiata al Senato, che sembra stia valutando un diverso provvedimento dalla portata addirittura dimezzata.

A fronte della totale inazione sul fronte della creazione di posti di lavoro e, al contrario, della generosa erogazione di denaro pubblico alle banche travolte dalla crisi finanziaria di fine 2008, sono in arrivo, appunto, nuove misure per contenere la spesa sociale. A fare le spese del piano propagandistico di Obama per stabilizzare il deficit saranno ovviamente ancora una volta i redditi più bassi che potrebbero subire le conseguenze del congelamento della spesa per i prossimi tre anni nell’ambito della Sanità, dello Sviluppo Urbano, dei Trasporti, dell’Agricoltura e dell’Energia.

Tagli che ammonteranno complessivamente ad appena un sesto dell’intero budget federale (250 miliardi di dollari) e che, invece, non toccheranno minimamente l’emorragia di denaro destinato alla sicurezza nazionale e alle operazioni militari d’oltreoceano (700 miliardi). Se implementate, le proposte della Casa Bianca finiranno per ridurre all’osso i livelli della spesa sociale, secondo alcune valutazioni destinata nel 2015 a raggiungere i livelli più bassi da cinquant’anni a questa parte.

L’irruzione del problema (reale) della disoccupazione nel dibattito politico americano e di quello (falso) del deficit ha di conseguenza fatto scivolare in secondo piano l’obiettivo principale del presidente democratico solo fino a poche settimane fa: la riforma sanitaria. Anche in questo caso, il desiderio della maggioranza degli americani di vedere realizzata una riforma più incisiva rispetto a quelle uscite dai voti sui due progetti differenti di Camera e Senato sembrerebbe essersi tramutata in un risentimento nei confronti di una fantomatica occupazione dell’intero sistema sanitario da parte del governo. Da qui, la richiesta da più parti di rallentare i tempi e ridimensionare un piano già mitigato dall’influenza dei grandi interessi privati.

L’ascendente sull’amministrazione Obama dei poteri forti è d’altra parte un altro dei motivi della profonda disaffezione degli elettori che avevano premiato i democratici nel novembre 2008. I continui rimproveri rivolti anche durante il discorso sullo Stato dell’Unione all’irresponsabilità dei banchieri di Wall Street non possono che suonare vuoti dopo un anno di profitti record grazie al denaro dei contribuenti e considerando l’affollamento in questa amministrazione di personaggi usciti precisamente dalle fila di quelle istituzioni finanziarie responsabili del crollo dell’economia americana.

Se, a detta di Obama, ad un anno dal suo insediamento il “peggio sembra essere passato”, il futuro immediato per un’amministrazione già gravemente screditata agli occhi dei lavoratori americani e della classe media si presenta tutt’altro che promettente. Se i repubblicani non se la passano meglio in termini di popolarità, il sentimento di ostilità diffuso nei confronti del partito che detiene le leve del potere minaccia una nuova pesante punizione alle urne per i democratici il prossimo autunno.

Con la conseguenza di riconsegnare un più ampio margine di manovra al Congresso ad un’opposizione sempre più pericolosamente spostata a destra. In un sistema profondamente deteriorato e nel quale sono le élite economico-finanziarie e le loro lobbies a dettare i contenuti dell’agenda politica sia ai repubblicani che ai democratici, la soluzione alla crisi irreversibile della rappresentanza democratica non può allora che risiedere al di fuori del bipartitismo che domina il panorama politico americano. Una prospettiva, con ogni probabilità, ancora lontana, ma le cui basi potrebbero essere gettate proprio dalla corruzione di un sistema ormai incapace di rispondere ai bisogni dei cittadini comuni.

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