di Michele Paris

Dopo mesi di dure battaglie ed estenuanti trattative, di speranze e delusioni, il punto centrale del programma politico dell’amministrazione Obama è giunto in qualche modo in porto. Ad esultare per il voto definitivo della riforma sanitaria negli Stati Uniti, dopo l’approvazione di misura della Camera dei Rappresentanti nella notte tra domenica e lunedì, non saranno però tanto i cittadini americani, quanto un presidente e una maggioranza democratica che nelle prossime scadenze elettorali - rispettivamente nel 2012 e il prossimo novembre - avranno finalmente un risultato concreto da infilare nel proprio curriculum. Ma soprattutto, a beneficiare dei cambiamenti saranno le compagnie di assicurazioni private, le industrie farmaceutiche e gli ospedali che nel prossimo decennio incasseranno centinaia di miliardi di dollari sotto forma di sussidi federali passati a quei 32 milioni di americani a cui verrà estesa la copertura sanitaria.

La riforma fortemente voluta dalla Casa Bianca, infatti, non farà nulla per implementare oltreoceano un sistema sanitario pubblico universale come quello europeo o canadese. Oltre al fatto che da qui a dieci anni più di venti milioni di persone rimarranno ancora esclusi da qualsiasi genere di copertura (di cui un terzo saranno immigrati illegali), il nuovo sistema si baserà pressoché interamente sul mercato delle polizze private. I popolari programmi pubblici Medicare e Medicaid, rispettivamente per anziani e indigenti, pur rimanendo in vigore e in parte allargati, verranno colpiti da una serie di pesanti tagli che ne mineranno seriamente l’efficacia e finiranno per consolidare una sanità a doppio binario a seconda del reddito dei pazienti.

L’iter legislativo di una riforma che rimarrà comunque un episodio fondamentale nella storia dell’amministrazione Obama, ha avuto un andamento ben diverso da quello che i leader democratici e lo stesso presidente si immaginavano fino a pochi mesi fa. Dopo l’approvazione di due provvedimenti distinti sul finire dello scorso anno da parte della Camera dei Rappresentanti e del Senato, erano iniziati i lavori per giungere ad un pacchetto unico da sottoporre nuovamente al voto dei due rami del Congresso. Il clamoroso successo repubblicano in una speciale elezione in Massachusetts a metà gennaio, per scegliere il successore al Senato che era stato del defunto Ted Kennedy, aveva però improvvisamente cancellato la supermaggioranza democratica di 60 seggi nella Camera alta, necessaria a superare l’ostruzionismo dell’opposizione, bloccando il percorso della riforma.

Esposta alla totale opposizione repubblicana, la riforma appariva ormai sull’orlo del fallimento. Assorbito il trauma, Obama e la “speaker” della Camera, Nancy Pelosi, sono tuttavia riusciti a resuscitare il provvedimento e a lanciarlo verso la definitiva approvazione. La Camera bassa del Congresso, così, ha licenziato - con una maggioranza di 219 a 212 - l’identico testo a cui il Senato aveva dato l’OK alla vigilia di Natale. Contestualmente, i deputati americani hanno poi adottato una serie di modifiche allo stesso testo che nei prossimi giorni saranno inviate al Senato per l’approvazione tramite una speciale procedura (“reconciliation”) che richiede una maggioranza semplice di 51 voti a favore.

Quest’ultima manovra si è resa necessaria poiché un numero consistente di deputati democratici aveva mostrato forti resistenze alla versione del Senato. Anche con le modifiche adottate, il passaggio della riforma alla Camera è stato però possibile solo in seguito a fortissime pressioni esercitate sui rappresentati di maggioranza più recalcitranti (34 deputati democratici alla fine hanno comunque votato contro) da parte della Casa Bianca e dai vertici del Partito Democratico.

Ad assicurare i voti necessari al passaggio della riforma è stata infine una trattativa dell’ultimo minuto con i democratici antiabortisti, guidati dal deputato del Michigan Bart Stupak. Contrari al linguaggio - a loro parere troppo poco restrittivo sul finanziamento federale dell’aborto contenuto nel testo del Senato - i parlamentari “pro-life” hanno ottenuto la promessa di Obama di firmare un decreto presidenziale che impedirà ai beneficiari di sussidi governativi (cioè le donne con i redditi più bassi) di acquistare polizze private che offriranno l’interruzione di gravidanza.

La riforma Obama costerà 938 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, ma determinerà una riduzione del deficit federale di 143 miliardi grazie ai tagli previsti per il programma Medicare e a nuove tasse sui piani di copertura sanitaria più costosi e sui redditi più elevati. Scongiurato l’incubo delle compagnie di assicurazione - un piano di copertura pubblico gestito dal governo federale - la metà circa dei 32 milioni di americani attualmente scoperti otterrà una polizza tramite il programma pubblico Medicaid, mentre il resto finirà nel mercato privato.

Uno dei pochi aspetti positivi della riforma è che essa impedirà alle compagnie private, a partire dal 2014, di negare la copertura sanitaria a pazienti con condizioni di malattia pre-esistenti. Tale divieto sarà invece già operativo tra qualche mese per quanto riguarda i bambini, così come quello che proibirà alle stesse compagnie assicurative di cancellare una polizza ad un cliente nel momento in cui si ammala.

L’acquisto di una polizza sarà poi obbligatorio per quasi tutti gli americani, pena il pagamento di una penale il cui importo aumenterà con il trascorrere degli anni. L’obbligo di acquisto è stato molto discusso negli USA e si è reso necessario per consentire alle assicurazioni private di contare su maggiori entrate per bilanciare i maggiori esborsi da sostenere dovendo garantire la copertura anche a soggetti “a rischio”. Anche le aziende più grandi saranno tenute ad offrire un piano di copertura ai loro dipendenti se non vorranno pagare una sanzione, che appare in ogni caso irrisoria. Per quelle più piccole sono previsti invece crediti d’imposta per favorire la stipula di nuove polizze.

Per quanti non otterranno la copertura sanitaria tramite il proprio datore di lavoro e per i malati cronici, sempre dal 2014 saranno disponibili altre polizze private acquistabili in un mercato regolato a livello federale ma stabilito da ogni singolo stato americano (“insurance exchanges”). Per quanto riguarda la copertura finanziaria del provvedimento, dal 2013, singoli e famiglie con redditi elevati verranno gravati da una modesta tassa sui loro redditi finanziari. Per le polizze più costose, i cosiddetti “Cadillac plans”, al di sopra di una certa soglia scatterà poi una pesante tassa, fortemente contestata dai sindacati perché andrà a colpire soprattutto i lavoratori specializzati.

La firma di Obama sulla riforma, in attesa delle modifiche che il Senato dovrà approvare, arriverà già nella giornata di martedì, assieme al prevedibile inizio di una campagna di entrambi gli schieramenti per mettere in evidenza, da un lato, i presunti benefici del provvedimento per gli americani e, dall’altro, i danni che invece causerà soprattutto alle finanze federali. I repubblicani, infatti, hanno già fatto sapere che utilizzeranno il voto sulla riforma sanitaria per attaccare i candidati democratici più vulnerabili nelle elezioni di medio termine per il Congresso.

Ben lontana dal rappresentare quella vittoria nei confronti dei grandi interessi proclamata da Obama subito dopo il voto o dal reggere un confronto con l’approvazione delle leggi sulla sicurezza sociale (nel 1935) e del programma federale Medicare (nel 1965) - ottenuti rispettivamente grazie a mobilitazioni di massa dei lavoratori e nell’ambito della lotta per i diritti civili - questa riforma è stata imposta in realtà dalla classe politica democratica e dai grandi interessi economici preoccupati principalmente per la crescita incontrollata della spesa sanitaria.

In un clima politico avvelenato da laceranti divisioni di parte e, soprattutto, dominato dall’influenza delle lobby dei grandi interessi privati, tuttavia, la riforma approvata domenica appare forse come il risultato massimo a cui il presidente Obama poteva realisticamente ambire.

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