di mazzetta

Il 12 settembre la Turchia andrà ad un referendum relativo a una serie di modifiche costituzionali che avvicineranno lo stato turco alle democrazie europee. Il fatto che a promuovere le riforme ci sia il partito “islamico” al governo, ha offerto ai partiti dell'opposizione il pretesto per gridare all'islamizzazione dello Stato. Ma si tratta di riforme a lungo attese, perché destinate a rimuovere alcune anomalie nella Costituzione scritta nel 1982 dai militari che, con un golpe, avevano preso il potere nel 1980.

La storia moderna della Turchia è fatta di ripetuti interventi dei militari nella politica del paese. I militari si considerano custodi della laicità dello Stato e dell'impronta kemalista sulla Turchia moderna; ma è più che evidente che negli anni il collante ideologico che ha tenuto insieme lo “stato profondo” turco si è indebolito molto e che superiori interessi economici hanno spinto la Turchia verso la rimozione di queste vistose anomalie.

In realtà lo stato profondo in Turchia è tutt'altro che sconfitto, l'emergere dello scandalo di Ergenekon (una rete clandestina simile alla Gladio italiana, ma molto più attiva ed efficiente) ha messo in luce l'esistenza di progetti golpisti ben oltre il 2000 e l'esistenza di nocciolo duro che non si rassegna all'idea di una democrazia turca che non sia tenuta sotto scacco da quella che negli anni è diventata una specie di mafia.

Una mafia partecipata da parti della burocrazia statale e dell'esercito, che agiscono insieme alla criminalità organizzata e politica per manipolare il livello di tensione nella società, al fine di promuovere disegni che con la democrazia hanno ben poco a che fare. Attività che si coronano con il controllo del sistema giudiziario, platealmente intimorito e reticente quando si tratta di giudicare i militari o gli scandali più eclatanti.

Le riforme costituzionali mirano principalmente a trasferire il potere di nomina di alcuni giudici al Parlamento, all'introdurre il diritto allo sciopero e ai contratti collettivi per i dipendenti pubblici e, elemento non irrilevante, revocano l'immunità garantita agli autori del sanguinoso golpe del 1980 Golpe che oltre a fare una strage traghettò la Turchia nel mare aperto del  mercato globale, di fatto allineando il paese alla visione economica di Reagan. Molti anni più tardi i partiti vicini ai golpisti perderanno il potere, sprecando un grande vantaggio di consensi in inconcludenti inciuci mafiosi e spianando così la strada agli “islamici” dell'AKP. Oggi alle opposizioni non resta molto altro da fare che gridare al pericolo islamico, visto che i sondaggi sembrano sostenere la speranza di una vittoria robusta per i referendum voluti dal governo.

Il potere in questo caso non sembra logorare Erdogan e il suo partito, le opposizioni sono divise e troppo lontane tra loro per sperare di diventare maggioranza. Oltre ai partiti che si richiamano alla “turchità” si oppongono ai referendum i due partiti curdi: quello legale e quello dichiarato fuorilegge, che ha il proprio leader imprigionato in una fortezza su un'isola da quando il governo italiano non decise unirsi a quello turco nel ritenerlo un “terrorista”. Per i curdi le riforme costituzionali non prevedono spazi per le loro richieste d'autonomia e quindi la nuova costituzione é da respingere.

Non che non traspaia un certo autolesionismo da una posizione del genere, soprattutto considerando che la Costituzione, così com'è, rende molto più dure le ipotesi di reazione dello Stato turco alle intemperanze dei curdi e che a difendere lo status quo sono in prima fila proprio quei militari che hanno usato i curdi per decenni, massacrandoli a piacimento. I curdi sembrano al momento intenzionati a sfruttare la frattura tra Turchia e Israele e sembrano godere d'improvvisa popolarità sui media occidentali.

Della “questione curda” non si sentiva parlare da quando i curdi furono “liberati” da Saddam, anche se ai turchi e agli iraniani fu concesso di bombardare l'Iraq per combatterli meglio (ma questo non lo ha detto nessuno). Oggi invece emergono accuse di “crimini di guerra” contro l'esercito turco; il timing somiglia alla storia dei curdi gassati da Saddam in grazia d'Occidente, che poi diventano un capo d'accusa quando Saddam piace di meno.

A giudicare sono sempre quei paesi che hanno armato sia la Turchia che l'Iraq ed è facile prevedere che i curdi rischieranno per l'ennesima volta di fare la fine dei vasi di coccio tra quelli di ferro. Il governo Erdogan è sembrato più dialogante con loro, ma non è riuscito a frenare i militari e nemmeno a darsi la forza di supportare l'introduzione dell'autonomia curda nella Costituzione. Il problema di Erdogan è tutto nel riuscire a conservare il consenso che ha guadagnato e per farlo sembra disposto a più di un compromesso; l'agenda del suo governo ha poco per l'Islam, molto per  i grandi capitali e per l'aspirazione all'ingresso nella UE dalla porta principale.

In questa chiave, più nazionalista che prettamente “islamica”, è forse opportuno leggere l'attivismo diplomatico della Turchia, anche se le iniziative prese per porsi come mediatore nella questione iraniana e risolutore dell'assedio di Gaza non hanno fruttato grandi applausi all'estero, e in patria sono stati letti come manifestazioni d'orgoglio e di rilevanza da parte del paese. Azioni volte a tranquillizzare chi pensa alla difesa della “turchità” e a sottrarre ossigeno e militanti all'estrema destra nazionalista, quella capace di far uccidere il sacerdote italiano don Santoro solo per creare scompiglio e permettere ad altri estremisti della destra europea di gridare al pericolo islamico.

Strategia della tensione, provocazioni fin troppo evidenti ed elementari che però non mancano di sortire effetti a largo raggio, ben oltre il Bosforo. Se il referendum passerà, la Turchia sarà un po' più vicina all'Europa e alla democrazia, anche se qualcuno dirà che è un passo verso la sua islamizzazione. Quella che in Turchia dicono che è inevitabile se si toglie il potere ai militari, e quella che in Europa dicono di temere, senza mai citare il problema posto dall'esistenza e dalle pessime azioni dei nazionalisti turchi e dell'inquietante “stato profondo”.

Una strana asimmetria, perché l'Europa delle cancellerie parla dei problemi di democrazia posti dal potere dell'esercito turco, mentre le opinioni pubbliche sono invece orientate a vedere la questione dal punto di vista del temibile ingresso in Europa di milioni di musulmani turchi. Che però in Europa (e nella Nato e in tutto il resto) ci sono già, anche se non hanno il bollino blu.

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