di Carlo Musilli

“Parlano di me come se fossi un cane”. Con queste parole, pronunciate nel Milwaukee, davanti a una platea di sindacalisti riuniti per celebrare il Labour Day, si è sfogato Barack Obama. Ha davvero di che lamentarsi. Quella appena trascorsa è stata per lui un’estate da incubo. Per capire la portata dei guai in cui si è cacciato il Presidente americano, è sufficiente un’occhiata ai sondaggi. Il loro andamento ricorda una delle rovinose cadute nel burrone di Willy il Coyote: stando ai dati dell’Istituto Rasmussen, ad oggi Obama è appoggiato dal 42% degli americani. Mai caduto così in basso prima d’ora. Rispetto al gennaio 2009, quando iniziò il suo lavoro alla Casa Bianca, ha perso qualcosa come il 21% dei consensi.

Sembrano lontanissimi i tempi del “Yes, we can”. Obama ripete ancora lo slogan, forse il più azzeccato nella storia delle campagne elettorali Usa, ma non appare più convincente come allora. Sempre più magro, con i capelli sempre più grigi, lo stesso Presidente che era riuscito a mettere d’accordo schiere d’elettori fra loro tecnicamente incompatibili, oggi si dimostra sorprendentemente incapace di gestire quello che mai avremmo pensato gli sfuggisse di mano, l’opinione pubblica.

A darne la misura è il suo rapporto con l’11 settembre. Più che la data di un attentato terroristico, la sequenza di numeri 9/11 esprime un coagulo di significati simbolici. Sembrerebbe facile sfruttare un così potente strumento di coesione e di definizione dell’identità collettiva a proprio vantaggio. Almeno per un certo periodo, a Bush Jr è riuscito alla grande. Invece a Obama non riesce. Rimane come un diaframma, uno spazio indefinito fra lui e ciò che l’attentato a Ground Zero ancora rappresenta per gli americani. E il passare degli anni non c’entra.

“Così come la percezione della nostra vulnerabilità e della nostra politica estera è stata profondamente modificata dall’11 settembre, questo disastro cambierà il nostro modo di pensare all’ambiente e alle politiche energetiche negli anni a venire”. Nel giugno scorso Obama commentava con queste parole il diffondersi della marea nera nel Golfo del Messico, la più grave catastrofe ambientale nella storia degli Stati Uniti. La maggior parte del Paese non l’ha presa bene. Molti hanno capito ciò che il Presidente intendeva dire, ma a prevalere è stato un senso di fastidio, se non di autentico sdegno. Si sono offesi. Nemmeno se domattina l’Atlantico intero evaporasse in un quarto d’ora, per gli americani sarebbe paragonabile all’11 settembre. Ogni confronto, per quanto sensato, equivale a un insulto.

Purtroppo per i sondaggi, Obama ha continuato a dar prova della sua goffaggine con la psicologia di massa per tutta l’estate. La triste vicenda della moschea a Ground Zero ha segnato il tracollo della popolarità del Presidente, che di fronte alle irrazionali proteste dei cittadini ha risposto nel modo meno efficace. Ancora una volta, con la ragione. Ha indugiato in dissertazioni accademiche sulla libertà di religione garantita dalla Costituzione, sull’America come terra d’accoglienza e di tolleranza. E ha mancato clamorosamente il bersaglio. Di nuovo, il Paese gli chiedeva un diverso livello di comunicazione e lui non ha saputo rispondere. A questo punto, la distanza fra Obama e il significato dell’11 settembre è diventata incolmabile. La gente non ha più sentito il Presidente vicino come ai tempi di “Yes, we can”. Soprattutto, non l’ha più sentito americano.

Molti addirittura sono seriamente convinti che non lo sia. In un clima del genere, infatti, perfino quella scombinata accozzaglia del Partito Repubblicano ha capito su quale tasto conveniva battere. E ha sparato a zero sul Presidente usando il solito bazooka: Fox News, il canale volgarmente schierato che qualche anno fa ha convinto tutti che l’Iraq fosse stracolmo di armi di distruzione di massa. Risultato? Oggi diversi americani credono che Obama non sia nato negli Stati Uniti e che segretamente professi la religione islamica. Come dire, se non capisci cosa vuol dire l’11 settembre, è evidente, non sei uno di noi.

Fra meno di due mesi ci sono le elezioni di medio termine e nessuno punterebbe mezzo dollaro sui Democratici. È praticamente scontato il trionfo dei Repubblicani, che non hanno una guida, né un programma politico vero e proprio. In realtà, com’è ovvio, questa situazione non è direttamente legata a ciò che abbiamo detto sull’11 settembre, ma a una complessa serie di fili intrecciati. Soprattutto, è dovuta all’economia. Obama viene accusato di aver sprecato tutto il 2010 occupandosi di questioni tutto sommato marginali (le riforme della sanità e di Wall street, le guerre in Afghanistan e in Iraq, i negoziati di pace in Medio Oriente, la vicenda Bp), trascurando la cosa più importante per gli americani, la ripresa economica.

Per questo sabato scorso, sempre da Milwaukee, il Presidente ha annunciato un piano di opere pubbliche da 50 miliardi di dollari e la proroga del piano da 100 miliardi di dollari in 10 anni per le aziende che investono in ricerca. Molti credono si tratti di una trovata elettorale, perché il Congresso non approverà mai il provvedimento. Anche se lo fosse, probabilmente non funzionerà, le elezioni sono troppo vicine ormai. In ogni caso, nel frattempo, resta da affrontare l’11 settembre. O meglio, la memoria e le paure collettive che questa data evoca negli americani.

 

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