di Eugenio Roscini Vitali

In Bosnia-Erzegovina le elezioni legislative e presidenziali del 3 ottobre scorso hanno confermato, per la decima volta in quindici anni, uno scenario sostanzialmente diviso su basi etniche. Una situazione di stallo politico, quindi, aggravata da un tasso di disoccupazione che resta al 43%, dai tagli alla spesa pubblica richiesti dal Fondo monetario internazionale, dalla rabbia degli ex combattenti e da un sentimento di sfiducia trasversale che si è concretizzato in un’astensione pari al 50%.

Su una popolazione complessiva di 3,9 milioni di abitanti, i cittadini chiamati a scegliere i tre componenti della presidenza tripartita, i deputati del Parlamento centrale e quelli delle due entità, i consigli dei dieci cantoni della Federazione bosniaca e il presidente e i due vicepresidenti della Republika Srpska, sono stati 3.126.599; di questi hanno votato 1.651.376 bosniaci, 566.083 dei quali serbi, e alla fine le schede nulle sono risultate 129 mila.

Sul fronte croato il voto ha confermato Zeljko Komsic, membro del Partito Socialdemocratico (SDP), che con il 60,96% delle preferenze ha sconfitto la concorrente nazionalista dell’Unione Democratica Croata (HDZ), Borjana Kristo (19,53%), e il rappresentante della coalizione croata HDZ-1990, Martin Raguz (10,70%). I 317 mila voti che hanno dato la vittoria a Komsic, da sempre su posizioni multietniche e contrario a una politica nazionalista, non devono comunque illudere: la signora Kristo ha pagato l’eccessivo frazionamento della destra e le polemiche dei nazionalisti croati che la ritengono capace di intercettare il voto musulmano e per questo non in grado di rappresentare i croati nella presidenza tripartita.

Per la presidenza tripartita i serbi hanno invece rieletto, per la seconda volta consecutiva, Nebojsa Radmanovic, dell’Unione dei Socialdemocratici (SNSD), partito del premier della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, che a sua volta ha conquistato la presidenza dell’entità serbo-bosniaca nata dal General Framework Agreement for Peace (GFAP) stipulato il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson di Dayton, in Ohio.

Oltre a Rajko Papovic (3,25%), capolista dell’Unione per la Srpska Democratica (UDS), Radmanovic (49,76%) ha superato di misura Mladen Ivanic (46.98%), leader del Partito del Progresso Democratico (PDP) che per l’occasione ha corso con la coalizione ”Insieme per Srpska”, un’alleanza di partiti dove secondo alcuni media internazionali militerebbero personaggi legati a Radovan Karadzic e Vojislav Seselj, entrambe incriminati  per crimini di guerra e genocidio ed estradati all’Aja per essere giudicato dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia (TPI).

Eccetto qualche isolato esperimento politico che ha dato vita a movimenti del tutto nuovi, come il Nuovo Partito Socialista di Zdravko Krsmanovic, sindaco di Foca, e Nasa Stranka, la formazione multietnica alla quale aderisce il regista e premio Oscar Danis Tanovic, la corsa alla presidenza della Repubblica Srpka tra il primo ministro Milorad Dodik (50.52%), che da anni tiene in scacco la comunità internazionale con la minaccia della secessione, e Ognjen Tadic (35.92%), anche lui come Ivanic candidato della coalizione “Insieme per Srpska”, è stato del tutto formale.

Così come formale è stato il risultato ottenuto dai candidati non serbi, con il bosniacco Enes Suljkanovic che ha raccolto il 2,44% e il croato Emil Vlajki, che con poco più di 6 mila voti non ha superato il punto percentuale. Questa vittoria permette a Milorad Dodik di rafforzare il fronte nazionalista e anche se in veste di presidente ha già parlano di bisogno di stabilità e unità - l’SNDS continuerà la partnership di coalizione con i popolari democratici e con i socialisti - rimane il fatto che sullo status della Repubblica si è detto pronto a combattere per modificare gli accordi di Dayton. Una posizione intransigente che è peraltro scandita nel motto stesso del suo partito: “Repubblica Srpska per sempre, Bosnia Erzegovina finché si deve”.

L’unica vera novità è arrivata dall’elettorato musulmano, che all’uscente Haris Silajdzic (24,90%), fondatore del Partito della Bosnia Erzegovina (SBH), ha preferito Bakir Izetbegovic (34,80%), membro del Partito d’Azione Democratica (SDA) e figlio di Alija, leader dei bosniaci durante il conflitto 1992-1995. Per molti analisti la sconfitta di Silajdzic (che in campagna elettorale ha tentato di superare a destra Izetbegovic, lanciando l’ipotesi di un’alleanza strategica con la Turchia) rappresenta l’esigenza di un voto moderato, ma neanche il  Partito d’Azione Democratica ha sfondato e se il primo ha probabilmente pagato la polemica fuoriuscita dall’SDA, il secondo ha in parte scontato i problemi causati da un sistema di potere che in Bosnia, dal dopo guerra ad oggi, ha già gestito, senza ottenere alcun risultato concreto, 15 miliardi di dollari.

E’ quindi più probabile che una grossa fetta dell’elettorato di centro abbia voluto esprimere un voto di protesta, premiando in un certo senso il fondatore dell’Alleanza per il Progresso (SBB), il tycoon Fahrudin Radoncic (30,75%), boss della ricostruzione post bellica di Sarajevo e proprietario della rete televisiva Alfa, del quotidiano Dvevni Avaz e di numerose testate editoriali tra cui Express, Global, Azar e Sport Avaz.

Oltre al forte astensionismo e alle novità dovute al cambio della guardia nella rappresentanza bosniaca alla presidenza tripartita, il dato di maggiore rilievo scaturito dalle urne è la vittoria dei partiti socialdemocratici, una vittoria trasversale che deve comunque fare i conti con le appartenente etniche.

I due partiti socialdemocratici che hanno ottenuto più voti a livello statale non possono infatti governare da soli e a quanto pare non sembrano disposti a raggiungere un compromesso. La serba Dusanka Majkic, presidente della Camera dei popoli al Parlamento della Bosnia Erzegovina e compagna di partito di Nebojsa Radmanovic è convinta che un’alleanza con il Partito Socialdemocratico del croato Zeljko Komsic è impossibile e che per la formazione di un governo bisognerà pensare altre soluzioni.

Secondo il sito Sarajevo-x.com, un’ancora di salvezza all’SDP l’avrebbe però lanciata Mladen Ivanic, che nei giorni scorsi avrebbe avuto un meeting informale con Zlatko Lagumdzija. Lo scorso 15 ottobre Ivanic e Lagumdzija si sarebbero incontrati al ristorante Vinoteka di Sarajevo per sondare la possibilità di formare una coalizione di governo che possa comprendere  il Partito Democratico Serbo (SDS) di Mladen Bosic;  sul tavolo un’alleanza che ad Ivanic potrebbe fruttare la poltrona di ministro degli Esteri.

Lo scontro che si consuma all’interno dell’area socialdemocratica non è l’unico; adesso che l’SDA ha perso la sua posizione egemonica e l’SDP è diventato il primo partito, anche in casa bosniaca iniziano a sorgere i primi contrasti e Bakir Izetbegovic deve iniziare a fare i conti con la sorprendente affermazione di Fahrudin Radoncic.

L’SDA, che sembra pronto a dialogare con tutte le formazioni ad eccezione del partito fondato da magnate dell’editoria, giustifica la perdita dei consensi, e il conseguente successo dell’SBB, con una campagna elettorale mirata più alle problematiche di tipo periferico che nazionale, ma sono in molti a pensare che Bakir Izetbegovic  e Silajdzic abbiano pagato una pressione mediatica  che in  qualche modo, anche nella Federazione Bosnia, riesce a modificare gli equilibri politici, una pressione che in questo caso è targata “Fahrudin Radoncic”.

 

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