di Emanuela Pessina

BERLINO. Infuoca in Germania il dibattito sull'immigrazione scatenato qualche tempo fa dal libro di Thilo Sarrazin "La Germania si distrugge da sola", in cui l'ex dirigente della Bundesbank giustificava il razzismo con la necessità di una selezione biologica conforme all'intelligenza e al ceto sociale. Ed è proprio sullo sfondo di questa discussione che il quotidiano di sinistra berlinese Tageszeitung (Taz) offre un interessante confronto tra i vari modelli di gestione dei flussi migratori nei vari Paesi europei, nonché uno sguardo d'inseme sulla neodirettiva comunitaria proposta dalla Commissione nel 2009: una riflessione che lascia intravedere numerose incertezze per il futuro.

Se, da una parte, Eurolandia si sente pronta per una politica di integrazione comune a tutti gli Stati membri, dall'altra non si può evitare di notare le numerose differenze di base che contraddistinguono i singoli Stati. Ogni Paese ha esigenze profondamente diverse che mettono in discussione l'effettiva utilità di una direttiva comunitaria. Una legge, del resto, estremamente severa e incentrata ancora una volta su lavoro e reddito.

In Germania, ad esempio, l'ultimo reclutamento sistematico di forze lavoro dall'estero risale al 1973. Eppure, già nel 2000 è stata introdotto un permesso particolare per tecnici specializzati, primo segnale di una crisi di personale qualificato. Alla scadenza del permesso, i tecnici possono rimanere solo se guadagnano più di 66mila Euro all'anno. L'immigrato che guadagna meno, invece, viene messo alla sbarra: il datore di lavoro deve garantirne l'assoluta necessità all'interno dell'azienda e dimostrare che nessun tedesco o comunitario è in grado di prendere il suo posto. Dal 2007, inoltre, i familiari di coloro che possono raggiungere i propri congiunti solo dopo aver superato un test di lingua. Il diritto a rimanere in Germania viene concesso anche a coloro che non vengono espulsi entro sei anni.

In Danimarca, invece, la selezione degli immigrati avviene tramite una valutazione 'a punteggio'. Si tratta di una stima sistematica delle possibilità effettive di un extracomunitario di trovare lavoro: la laurea, ad esempio, vale 50 punti, la giovane età può arrivare a garantire 15 punti, mentre una formazione europea regala al candidato ben 10 punti.  Cento punti, 10mila euro e un'assicurazione sanitaria garantiscono al potenziale lavoratore un permesso di sei mesi, periodo durante il quale il candidato può trovarsi un lavoro. Se questo avviene, l'extracomunitario ottiene un permesso di tre anni e ha la possibilità di trasferire anche la famiglia.

La situazione degli extracomunitari in Italia non è purtroppo delle migliori. Qui gli immigrati sono parte integrante della società ma offrono un contributo che rimane quasi completamente sommerso. Assistenza sociale e paramedica, agricoltura, edilizia e catene di montaggio sono solo alcuni dei settori in cui la manodopera degli extracomunitari è indispensabile, laddove cioè l'italiano medio non vuole più lavorare. La maggior parte degli immigrati, tuttavia, lavora in nero e le possibilità di vedersi concesso un permesso di soggiorno effettivo diminuiscono sempre più.

I permessi, di regola, vengono concessi solo per un anno. Chi ha un contratto a tempo indeterminato si vede rinnovare il permesso per un biennio. Un permesso di soggiorno a tempo indeterminato viene concesso solo a chi vive in Italia da più di sei anni. Il che, vista la campagna anti immigrazione portata avanti dalla Lega e sostenuta più o meno apertamente dal governo tutto, è un traguardo umano e sociale, prima che legale.

L'unica a mostrare una certa apertura nei confronti degli immigrati illegali è forse la Spagna, che conta d'altra parte più un milione di immigrati illegali nel suo territorio. Per il momento, la politica di integrazione spagnola è molto diretta: chi ha lavoro può rimanere, chi è senza lavoro se ne deve andare. Il governo socialista di Zapatero vuole tuttavia introdurre il concetto di “radicamento professionale” e “sociale”. Il radicamento professionale garantisce a chi dimostra due anni di lavoro regolare la possibilità di richiedere “los papeles”, mentre quello sociale riconosce dei diritti di permanenza a coloro che trovano un'occupazione dopo essere stati per almeno tre anni in Spagna, anche illegalmente.

E ora Eurolandia sente il bisogno di una direttiva comune nei confronti degli extracomunitari, forse per ribadire a voce ancora più alta la propria identità. Teoricamente, le basi per un controllo dell'immigrazione a livello comunitario sono già state gettate. Dopo parecchi anni di discussione, nel 2009 gli stati membri hanno trovato l'accordo per la cosiddetta 'Blue Card', un visto comunitario simile alla Green Card americana.

Secondo la proposta della Commissione europea, la Blue Card dà agli extracomunitari il diritto di cercare lavoro per due anni soltanto nel Paese da cui è stata emessa. Per un eventuale prolungamento, il candidato deve ottenere un posto di lavoro che gli garantisca uno stipendio di una volta e mezzo maggiore rispetto a quello medio del Paese. Concretamente, però, i singoli Stati possono alzare a piacere la soglia di stipendio richiesta.

La Commissione, tuttavia, ha già ben chiara la direzione di questa Blue Card. Secondo le prime stime, infatti, saranno i più qualificati a concorrere per il permesso. Ciò significa l'1.7% dei lavoratori del continente africano; in Canada, tanto per fare un confronto, sono il 7.3% a rientrare nel parametro. Un furto legalizzato di forze lavoro specializzate, quindi, a quei Paesi che non appartengono alla comunità europea, nonché una selezione a priori di quale tipologia di extracomunitario potrà entrare in Europa. Nonostante molti Paesi abbiano minacciato il veto, la direttiva entrerà in vigore nei Paesi membri della EU entro marzo 2011. Le premesse non lasciano intravedere la maggiore flessibilità sperata in ambito integrazione. Dopo avergli saccheggiato le risorse, gli rubiamo anche la mano d’opera. L’Europa dei mercanti sa fare i suoi affari.

 

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