di Michele Paris

Il primo atteso rapporto della speciale commissione nominata da Barack Obama sul contenimento del deficit negli Stati Uniti ha fatto intravedere settimana scorsa tutte le minacce che a breve potrebbero materializzarsi per gli americani a basso reddito. Completamente disinteressati alla sorte di quelle decine di milioni di cittadini per i quali le conseguenze della crisi economica sono tutt’altro che superate, i politici democratici e repubblicani facenti parte della cosiddetta Commissione Nazionale per la Riforma e la Responsabilità Fiscale si sono in sostanza aggregati al coro dei falchi del deficit, che di questi tempi infestano le stanze del potere di mezzo mondo chiedendo una raffica di tagli alla spesa pubblica e un sistema tributario ancora più vantaggioso per le imprese e i redditi più alti.

Le proposte della commissione sono significativamente giunte subito dopo il voto di medio termine che ha segnato una pesantissima sconfitta per il partito del presidente. Come previsto alla vigilia, il trionfo repubblicano ha infatti preparato il campo per nuovi progetti mirati ad affrontare il principale pericolo che gli USA devono fronteggiare già a breve scadenza secondo la classe politica e i media istituzionali: un deficit dalle proporzioni enormi.

A guidare il gruppo di lavoro voluto da Obama, dietro suggerimento di alcuni elementi della propria amministrazione, preoccupati per le ripercussioni pubbliche delle pur modeste misure di spesa adottate nei primi mesi del suo mandato, sono l’ex senatore repubblicano del Wyoming Alan K. Simpson e l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton, Erskine Bowles, il cui punto di vista obiettivo sul percorso di ripresa dell’economia americana è garantito dai suoi attuali incarichi nei consigli di amministrazione di Morgan Stanley e General Motors.

Tra i provvedimenti consigliati al prossimo congresso dal duo Simpson-Bowles è sufficiente citarne alcuni per comprendere subito la natura dell’operazione di assalto ad un welfare già esile in corso a Washington. Tra questi ci sono: tagli agli adeguamenti secondo l’inflazione per i benefici garantiti dalla Sicurezza Sociale ai pensionati e progressivo innalzamento dell’età pensionabile fino a 69 anni entro il 2075; contenimento delle spese sanitarie, con particolare attenzione ai popolari programmi Medicare e Medicaid; licenziamento di oltre duecento mila dipendenti pubblici e congelamento degli stipendi, militari esclusi; abolizione di alcune deduzioni fiscali, ad esempio quelle sui mutui, e riforma del sistema fiscale per ridurre l’aliquota dei redditi più alti dal 35 al 23 per cento e quella delle imprese dal 35 al 26 per cento.

Mentre uno dei due presidenti della commissione a Washington celebrava divertito l’impopolarità delle misure proposte, prevedendo per se stesso un imminente ingresso nel programma di protezioni testimoni per sfuggire all’ira della gente comune, da Seoul Obama lodava i primi risultati snocciolati dal gruppo di esperti da lui scelti. Il presidente, anzi, ha addirittura criticato quei pochi compagni di partito democratici che timidamente hanno giudicato eccessivi i tagli proposti.

Dalla Casa Bianca insomma ci si prepara ad una fruttuosa collaborazione con la neo-maggioranza repubblicana alla Camera sul fronte del deficit, così da preservare intatta la certezza del profitto per corporation e grandi banche e far pagare gli effetti della crisi a lavoratori e classe media.

A conferma di ciò vi è anche la recente uscita del principale consigliere del presidente, David Axelrod, il quale ha reso pubblica la disponibilità di Obama al compromesso sulla questione dell’estensione dei benefici fiscali per i redditi più alti voluti dal suo predecessore. Mentre in campagna elettorale e fino a pochi giorni fa il presidente si era dichiarato totalmente contrario al prolungamento dei tagli alle tasse oltre il 31 dicembre di quest’anno per le entrate superiori ai 250 mila dollari, ora sembra essersi adeguato alle richieste dei repubblicani che da un lato mettono in guardia da un debito pubblico insostenibile e dall’altro si adoperano per estendere un provvedimento che causerà un buco di bilancio di svariate centinaia di miliardi di dollari nei prossimi anni.

La totale incomprensione del problema economico da parte dei leader della commissione Obama, così come di una schiera di capi di governo, presidenti e ministri in Occidente, è stata messa in risalto da più di un autorevole economista. Nel caso degli Stati Uniti, l’esplosione della bolla speculativa alimentata dal mercato edile due anni fa ha trascinato verso l’abisso l’intera economia, producendo un collasso della domanda interna. In una tale situazione, al gap venutosi a creare può supplire unicamente il pubblico con un allargamento dei cordoni della spesa federale. Se, al contrario, in questo frangente la spesa viene compressa per un ingiustificato timore del deficit sul breve e medio periodo il risultato è un ulteriore crollo della domanda, un rallentamento dell’economia e la perdita di nuovi posti di lavoro.

Le idee partorite dalla commissione per il deficit negli Stati Uniti risultano d’altra parte ideologiche, come lo sono i provvedimenti adottati un po’ ovunque negli ultimi mesi da governi che rispondono unicamente ai diktat dei mercati e dei grandi interessi economici e finanziari. Se così non fosse, nel rapporto della commissione il problema dell’esplosiva spesa sanitaria verrebbe ad esempio affrontato da un’altra angolazione.

Il fatto che il sistema assistenziale in America sia in gran parte basato sulle compagnie di assicurazione private è in realtà la causa dell’aumento vertiginoso dei costi. La bancarotta di colossi come General Motors e Chrysler è stata infatti causata in parte anche dalla necessità di pagare ai loro dipendenti onerosi piani sanitari privati che avrebbero potuto essere offerti da un sistema pubblico, come avviene in gran parte del mondo occidentale.

Allo stesso modo, il bersaglio preferito dei tagli è l’insieme dei programmi federali di Sicurezza Sociale, anche se essi non contribuiscono alla crescita del deficit. Nella confusione della crociata contro tutto ciò che è pubblico, sfugge sempre il fatto che per tali programmi negli USA non è possibile spendere più di quanto entra nelle casse federali attraverso l’apposita tassazione che li finanzia. Nel propagandare l’innalzamento dell’età pensionabile, poi, si cita immancabilmente la crescita dell’aspettativa media di vita degli ultimi decenni. Gli studi tuttavia continuano a dimostrare come i cittadini con i redditi più bassi, che sarebbero costretti a lavorare più a lungo, beneficiano solo in minima parte dell’allungamento della vita.

Per finire, è stato vergognosamente tralasciato dalla relazione della commissione un qualsiasi riferimento ad una tassa sulle speculazioni finanziarie dei veri responsabili della crisi economica, un contributo consigliato persino dal Fondo Monetario Internazionale. Un provvedimento di questo genere avrebbe garantirebbe al governo federale entrate consistenti - nell’ordine dei 100 miliardi di dollari all’anno secondo uno studio degli economisti Dean Baker e Robert Pollin - senza oltretutto incidere negativamente sulle attività produttive.

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