di Eugenio Roscini Vitali

«La soluzione della crisi in Kashmir riguarda solo India e Pakistan che hanno interesse alla stabilità nella regione. Gli Stati Uniti non possono imporre una loro soluzione ma intendono facilitare il raggiungimento di un intesa»: è questo in pratica il risultato finale della visita in India del presidente americano Barak Obama, di quel leader democratico che prima delle elezioni del 2008 aveva detto al mondo che l’autodeterminazione di una delle zone più militarizzate del pianeta sarebbe stato uno degli obbiettivi principali della sua amministrazione.

A Nuova Delhi il capo della Casa Bianca ha invece parlato di lotta al terrorismo e di relazioni fra Usa e India e davanti al Parlamento ha annunciato il pieno sostegno Usa all’ingresso dell’India nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu come membro permanente. Non una parola sulla violazione dei diritti umani nel Kashmir, sulla sorte delle donne nei villaggi sperduti dove ci sono più soldati che civili, sui soprusi, gli interrogatori, gli arresti illegali e le torture, sulle migliaia di persone “scomparse”, sul coprifuoco permanente, la censura e le pallottole contro i manifestanti, sul futuro di una regione abitata per il 75% da musulmani e di una Vallata avvelenata dalla presenza di mezzo milione di soldati.

Negli ultimi anni in Kashmir il dominio militare indiano ha prodotto due facce della stessa medaglia: da un lato ha fiaccato la lotta armata portata avanti dai guerriglieri separatisti con il sostegno del Pakistan e ha ridotto, secondo il ministero degli Interni indiano, i militanti a meno di 500; dall’altro ha rafforzato la frangia più dura del movimento All Parties Hurriyat Conference (Aphc), l’organizzazione fedele al vecchio patriarca della resistenza kashmira, l’ottantatreenne Syed Ali Shah Geelani, e ha dato coraggio ai giovani che da tre anni a questa parte manifestano in piazza contro quella che considerano una “occupazione violenta”.

La rabbia della generazione cresciuta nella guerra sta però facendo i conti con una repressione diventata sempre più dura e sanguinosa: solo negli ultimi mesi sono state uccise 111 persone e si sono registrati più di tremila feriti e quasi mille arresti, soprattutto giovani non organizzati che rappresentano se stessi e che, impugnando pietre, affrontano i reparti antisommossa dell’esercito indiano.

La nuova intifada kashmira è iniziata l’11 giugno scorso, con la morte di un ragazzo che tornava da scuola, colpito da un candelotto sparato a distanza ravvicinata dai militari impegnati nel fronteggiare la manifestazione anti-indiana che si stava tenendo nei pressi dello stadio di Rajouri Kadal. La rabbia per l’omicidio dello studente si è andata a sommare a quella per i trasportatori uccisi a maggio dai reparti antiterrorismo lungo il confine pachistano.

Da allora il coprifuoco è stato esteso a quasi tutta la Valle e gli arresti e le uccisioni di civili disarmati non si sono più fermate; Nuova Delhi sospetta che tra i registi della protesta ci sia il Lashkar-e-Taiba (LeT), l’Esercito dei puri, il gruppo terroristico legato ad Al Qaeda e al Movimento della Jihad Islamica, accusato dall’India di aver organizzato gli attentati di Mumbai, ma secondo gli esperti la rivolta kashmira è solo una forma di protesta spontanea ed indipendente.

Sui fatti di Mumbai ci sono poi non poche zone d’ombra. E’ noto, infatti, che tra gennaio e giugno del 2008 i funzionari dell’intelligence statunitense avrebbero avvertito la controparte indiana circa una possibile azione terroristica contro obbiettivi occidentali in India e che, nel mese di settembre, un altro monito degli Stati Uniti avrebbe obbligato gli agenti dell’antiterrorismo indiano a rinforzare  le misure di sicurezza dell’Hotel Taj Mahal.

La fondatezza delle ipotesi americane sarebbe stata poi confermata dall’MI5 britannico, che alcuni mesi dopo l’attentato del 26 novembre 2008 avrebbe segnato alla CIA il nome di un presunto terrorista in contatto con una cellula di Al Qaeda in Europa: David Headley, al secolo Daood Gilani, un uomo d’affari statunitense poi rivelatosi militante di Lashkar-e-Taiba. Una volta arrestato, David Headley avrebbe confermato di essersi incontrato più volte con il referente di Lashkar-e-Taiba a Karachi; con lui avrebbe organizzato la squadra responsabile dell’operazione costata la vita a 175 persone. Un massacro che, nonostante gli avvertimenti americani, ha colto impreparate le forze di sicurezza indiane.

Nonostante i numeri ufficiali, negli ultimi vent’anni in Kashmir la causa separatista ha fatto quasi 30 mila desaparesidos e 70 mila vittime: uomini, donne e ragazzi morti nei combattimenti o nelle rivolte che hanno infiammato le strada di Srinagar o vittime delle torture subite in carcere o scomparse nel nulla. La fase di radicalizzazione dei musulmani indiani non è però solo una questione kashmira; nel 2002 i pogrom anti-islamici avvenuti nello Stato indiano del  Gujarat causarono 2.000 vittime e quasi 200 mila profughi.

Una strage partita da lontano, dalla spirale di violenza iniziata nel 1992 con la distruzione della moschea  Babri Masjid di Ayodhya, dove l’anno precedente i  kar sevak, espressione dell’ala extraparlamentare del movimento fondamentalista indù, avevano ucciso non meno di 600 musulmani.

Oggi l’intifada kashmira è nelle mani dalle generazioni nate e cresciute dopo i massacri degli anni ‘90, migliaia di ragazzi delle scuole medie e superiori e bambini delle elementari che al grido di “Quit India movement” sfilano per le strade di Srinagar con le madri e le sorelle. I nuovi martiri dell’indipendenza sfidano le pattuglie e gli odiati bunker disseminati lungo gli incroci della capitale sapendo che i tempi della rivolta saranno ancora lunghi e che ad ogni manifestazione seguirà una morte, un funerale e poi una nuova manifestazione, una nuova vittima e un nuovo funerale.

Ma sanno anche che il destino del Kashmir dipende da loro e che, come ha scritto sul New York Times la scrittrice paladina dell’autodeterminazione kashmira, Arundhati Roy, “né il silenzio di Obama né un suo intervento indurranno il popolo del Kashmir a mollare le pietre che serrano in pugno”.

 

 

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