di Fabrizio Casari

Emine Demir, ex redattrice del quotidiano curdo Azadiya Welat (che in curdo significa “L’indipendenza dalla madre patria”), è stata condannata da un tribunale di Diyarbakir, la principale città della Turchia sud-orientale, a maggioranza curda, a ben 138 anni di carcere per “propaganda in favore dei ribelli curdi”. Non é una novità assoluta la sorte di Emine, anzi é al secondo posto sul podio dell’ignominia turca contro l'informazione. A maggio era infatti toccato al caporedattore (sempre del medesimo quotidiano) Vedat Kursum, 36 anni, giornalista nonché editore del quotidiano. A lui, per gli stessi reati, erano stati inflitti 166 anni di carcere. Più fortunato Ozan Kilinc, ex direttore del quotidiano, condannato dieci mesi fa a “soli” 21 anni di prigione.

Non aspettatevi adesso editoriali grondanti indignazioni sui principali media internazionali. Emine Demir, purtroppo per lei, non è cubana. Fosse stata cubana, l’appellativo di “dissidente” gli sarebbe valso l’immediata protesta degli Stati Uniti, che ne avrebbero chiesto l’immediata liberazione. Fosse stata cubana l’Unione Europea avrebbe lanciato sdegnati comunicati contro la “brutale repressione del regime” e Reporter Sans Frontieres avrebbe lanciato raccolte di firme, convegni e proteste d’ogni tipo sostenute dallo stesso conto corrente, cui avrebbe fatto seguito la nascita, nel più breve tempo possibile, di una candidatura vittoriosa al Nobel per la pace.

Ma, purtroppo per lei, Emine non è cubana. E’ curda lei e turco il tribunale che l’ha condannata. Turco, non cubano. Di quel paese cioè che si autodefinisce democratico e laico e che aspira ad entrare in Europa, spinto proprio dagli stessi paesi della Ue che condannano Cuba per una presunta e mai dimostrata violazione dei diritti umani. D’altra parte, aver sterminato gli Armeni prima e i curdi poi non sarà poi cosa più ignobile che definirsi socialisti a 90 miglia da Miami, no?

Emine Demir potrà ricorrere in appello, facoltà attribuita ai vivi. Questo perché non è nemmeno honduregna, altrimenti invece che essere condannata a 138 anni di carcere per aver espresso delle opinioni sarebbe semplicemente morta, come morti sono i dieci giornalisti honduregni che denunciavano in questi mesi l’orrenda repressione a seguito del Colpo di Stato a Tegucigalpa, che ha deposto Manuel Zelaya, legittimo Presidente dell’Honduras.

Dieci giornalisti uccisi da grandinate di proiettili. L’ultimo è stato Henry Suazo, corrispondente di Radio HNR di Tegucigalpa. Prima di lui, a cadere sotto il piombo dei giganti della democrazia e del libero mercato è toccato a Joseph Ochoa, di Canale 51; David Meza, di Radio El Patio; José Bayardo Mairena e Víctor Manuel Juárez, di Radio Super 10; Nahum Palacios, della Televisione del Aguán e Luis Chévez, dell’emittente W105. Si aggiungono a Georgino Orellana, di un canale di San Pedro Sula; Nicolás Asfura, giornalista radiofonico e Luis Arturo Mondragón, direttore del notiziario del Canale 19 della città di El Paraíso. Tutti assassinati nel corso di quest’anno.

Dieci colleghi sfortunati, perché nati nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Fossero stati cubani sarebbero vivi e nei pensieri della signora Clinton, ma l’Honduras è la più grande base militare Usa fuori dai confini statunitensi e dunque davanti a tanta magnitudine cosa volete che siano dieci morti, per di più giornalisti?

E non parliamo di giornalisti diventati tali solo aver mai pubblicato niente, come succede a Cuba; questi erano giornalisti veri, che scrivevano, parlavano e raccontavano. Non fondavano partiti, non erano stipendiati dalla locale ambasciata Usa; facevano il loro mestiere per due soldi, spacciavano racconti di corruzione, repressione e narcotraffico.

In fondo, però, poca roba, confronto ai 14 giornalisti assassinati in Messico nel 2010, perché anche il Messico, va precisato, è una grande democrazia. Il fatto che sia un narco-stato, il pusher prediletto per gli Stati Uniti, cioé il più grande consumatore di droghe al mondo, non può far velo al merito di rappresentare pienamente gli interessi petroliferi del Big Brother confinante.

Per non parlare del Guatemala, dove ormai i giornalisti uccisi rasentano il numero di quelli in attività. Ma anche qui bisogna andarci cauti: essere il bastione dell’anticomunismo per tanti anni può legittimamente determinare alcuni eccessi e risulterebbe oltremodo pignolo e pernicioso stendere la contabilità dei danni collaterali nel corso di una guerra santa. La stessa che si combatte in Colombia, dove i quattro giornalisti uccisi quest'anno rappresentano la percentuale infinitesimale di quanti vengono minacciati dagli squadroni della morte del narcostato di José Santos.

Nel corso del 2010 i giornalisti uccisi sono 106, secondo le stime di Suize Press. Oltre a quelli già citati, dieci sono stati assassinati in Pakistan, otto in Irak, sei nelle Filippine, quattro in Russia, Brasile e Nigeria. Sembra che sia l'America Latina il luogo più pericoloso nel quale svolgere la professione, mentre gli Stati Uniti sono quello più remunerativo.

Pare che tra il libero mercato e le libere opinioni sia ormai difficile mediare: il primo prevede che le seconde siano docili o detenute, le seconde prevedono che il primo le lasci circolare impunemente soprattutto se contrarie. Dev’essere questo il nuovo modello di relazione tra affari e opinioni: più il mercato é libero, più l'edilizia carceraria e le imprese funerarie prosperano.

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