di Fabrizio Casari

Anche ieri gli scontri stra militari e rivoltosi hanno contrassegnato le manifestazioni ormai quotidiane che chiedono la fine del regime di Mubarak. All'esercito, che aveva chiesto ai dimostranti di tornare a casa, é stato invece risposto picche: la rivolta non si ferma. L'Egitto rifiuta gli appelli ad una transizione immediata del potere: lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri. Gli Usa si dicono preoccupati per l'evolversi della situazione ed il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon definisce “inaccettabili” gli attacchi contro i manifestanti. Le pressioni internazionali sembrano quindi indicare una scarsa disponibilità a correre in aiuto del fido alleato di un tempo. L'alunno per eccellenza del FMI, alleato fedele della pax occidentale, sembra ormai fuori gioco.

E quanto avviene in Egitto è ormai tema ineludibile per i media, le cancellerie internazionali, le opinioni pubbliche di ogni latitudine e longitudine. Ma se per queste ultime c’è solo la possibilità di accedere a parole ed immagini di una rivolta, per la diplomazia internazionale e per i mass-media le battaglie nelle strade del Cairo rappresentano invece la conferma ultima della loro inadeguatezza a svolgere il compito al quale sono chiamate.

Sembra quasi che le recenti rivelazioni di Wikileaks abbiano solo fornito con qualche settimana d’anticipo il senso compiuto della perdita di efficacia della diplomazia internazionale. Non una cancelleria, né occidentale, né orientale, aveva minimamente intuito cosa si agitava nel corpo della società egiziana, così come nessun reporter, di nessuna testata al mondo, aveva raccontato delle avvisaglie di una crisi profonda che avrebbe fatto saltare il coperchio sotto al quale ribolliva e ribolle tutto il paese.

D’altra parte entrambe le categorie vivacchiano osservando il mondo dai salotti e dalle piscine degli hotel di lusso, difficile che colgano quanto vive nelle strade caotiche, che pulsano fame e disperazione. L’Egitto è un paese di ottanta milioni di abitanti. La sua popolazione, con una crescita demografica impressionante, detiene due dati che meglio di ogni altro spiegano queste giornate: il 70 per cento della popolazione ha meno di 25 anni e l’ottanta per cento della popolazione è situata nella fascia più bassa di reddito. Non è quindi propriamente una nazione: è piuttosto una bomba a tempo. Milioni e milioni di giovani laureati vedono come prospettiva la disoccupazione. La povertà estrema riguarda il 40% della popolazione e la casta che domina il Paese rappresenta il 3% dello stesso.

Mentre si agitava lo spettro dell’integralismo islamico, si scopre che le rivolte hanno al centro la rivendicazione di democrazia, più precisamente del modello liberale della stessa. Altro che isterìa religiosa: si tratta di rivendicazioni sociali e politiche che riguardano proprio la mancata democrazia, formale e sostanziale.

Elezioni farsa e sistema di potere dittatoriale di riproduzione delle caste, peso preponderante dei militari e delle strutture d’intelligence nel controllo sociale e politico verso l’interno; questa l’essenza del sistema che ha reso i paesi maghrebini dominati dall’estero e dominanti verso l’interno. Le popolazioni di quei paesi, ricchi di passato, sono ormai masse di disperati senza alcun futuro.

L’Egitto ne è un esempio evidente: la sua economia, diretta dal Fondo Monetario Internazionale e parzialmente sussidiata dall’estero, tramite i circa due miliardi di dollari annui di aiuti Usa e gli otto miliardi di dollari provenienti dalle rimesse dei suoi emigranti (otto milioni circa, il 10% dell'intera popolazione) ha nello sfruttamento del gas e nel turismo le due uniche voci significative per le entrate, atteso che la produzione industriale non presenta cifre degne di nota in rapporto all’ampiezza e alla scala demografica della nazione.

Se poi si considera che, eccezion fatta per le rimesse dall’estero, i proventi del turismo e del gas, così come i sussidi internazionali vanno ad ingrassare i portafogli del 10 per cento della popolazione, cioè dell’elite economica e sociale che è padrona del Paese, si capisce come il livello di povertà della stragrande maggioranza degli egiziani sia irrisolvibile senza un cambio di regime.

Le elites egiziane mandano all’estero i propri figli a studiare; su di loro s’investe per la formazione della futura classe dirigente, direbbero gli economisti, ma sarebbe meglio dire che i fortunati pargoli altro non sono che i predestinati a ricevere in dono il Paese. Oltreconfine ci vanno anche i denari che le elites saccheggiano dall’estero e all’interno. Mentre quindi il paese è schiacciato verso il basso, denari e figli prediletti volano verso l’alto. Una sostanziale partita di giro che trasforma la ricchezza nazionale in patrimoni privati e le speranze nel futuro di decine di milioni di giovani in privilegi acquisiti per poche migliaia di rampolli. L’umiliazione di un paese che è stato culla della civiltà, risiede nei numeri infamanti che connotano le ingiustizie più profonde.

Quella in corso in Egitto è una rivolta, non una rivoluzione: la prima si differenzia in toto dalla seconda perché completamente diversi sono gli obiettivi. La rivoluzione ha come obiettivo quello di abbattere un sistema, di rovesciare la piramide sociale, economica e politica che quel sistema sorregge e che da quel sistema si alimenta. La rivolta ha obiettivi diversi: chiede la riformabilità di quel sistema, ma non ne mette in discussione il modello. Ne chiede semmai l’applicazione corretta, la compensazione e il riequilibrio delle storture che la sua degenerazione ha provocato e provoca.

Mubarak ha tentato di tenere a sé le forze armate e l’intelligence del Paese, nominando il suo capo a primo ministro e proponendo una sostanziale chiamata di correità a tutta l’elite dominante. Ma ha perso: l’esercito si rifiuta di usare ancora la forza e le elites economiche sono già con la valigia in mano. La sua capacità di coagulo è finita e, con essa, quella di mantenersi al comando. Che El Baradei, figlio dell’alta borghesia egiziana ma tenuto ai margini del potere e relegato ad un ruolo di rappresentanza internazionale di lustro per il Paese delle Piramidi, sia oggi il candidato più forte alla successione non è strano, è semmai l’unica opzione.

Non solo perché può contare sull’appoggio internazionale, ma anche perché gli stessi Fratelli Musulmani, come le altre organizzazioni della società civile egiziana, trovano in lui l’unico possibile compromesso tra passato e futuro, l’unica possibilità di mediazione tra le istanze di rinnovamento e il tentativo di accomodamento proposto dal dittatore in crisi. E trovano in El Baradei l’unico riferimento possibile in assenza di partiti politici capaci di farsi interpreti (e di essere riconosciuti come tali) delle istanze di rivolta.

Per questo l’uscita dalla crisi porterà uomini nuovi e nuovi assetti, non un nuovo sistema. E questo sembra averlo ben compreso Obama, che “gattopardescamente” ha capito che l’unico modo per mantenere il sistema è quello di riformarlo. Opporsi alla domanda di democrazia, difendere oltre l’indifendibile i raìs ormai odiati, avrebbe come unico effetto la radicalizzazione del conflitto e l’inserimento nello stesso delle forze politiche e religiose ostili agli interessi occidentali.

Resta da vedere se Mubarak sarà disponibile a lasciare il dominio sul Paese senza combattere fino all’ultimo. In fondo, sa perfettamente che la proposta di indire nuove elezioni e di non ricandidarsi non è sufficiente a fermare la sommossa. La scelta che l’opposizione gli pone è quella tra un aereo e l’esilio o il rimanere ed affrontare il giudizio che, immancabilmente, verrà. Perché ogni rovesciamento ha bisogno di una vittima sacrificale.

L’Egitto non è la Tunisia e nemmeno il Marocco. Il peso specifico dei militari è infinitamente più grande. A determinare lo sviluppo della situazione saranno dunque l’esercito e la polizia. Se si fideranno delle garanzie offerte da El Baradei, allora per il Raìs le ore sono contate. Se invece, a fronte delle loro richieste di cambiare il Presidente ma non il regime - e soprattutto il loro ruolo al suo interno - El Baradei dovesse opporre un rifiuto, allora i trecento morti contati fino ad ora potrebbero risultare solo la prima parte di una repressione sanguinosa di una rivolta che chiede solo di restituire l’Egitto agli egiziani.

 

 

 

 

 

 

 

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