di Fabrizio Casari

Un famoso detto arabo sostiene che “non c’è pace senza la Siria e non c’è guerra senza l’Egitto”. Intende con ciò che se Damasco è in grado di destabilizzare il quadro regionale con il suo peso politico, Il Cairo è indispensabile per poter consentire agli arabi qualunque avventura militare. Il fatto che dalla Guerra del Kippur in poi, i Paesi arabi non abbiano mai più tentato forzature militari anti-israeliane, vista la bruciante e rapidissima sconfitta subìta ad opera delle truppe di Tel Aviv, non cambia comunque la percezione generale che il detto arabo ben riassume.

L’Egitto, situato alla frontiera occidentale d’Israele, è crocevia ineludibile tra il possibile conflitto e l’assenza di guerre regionali; è un Paese cerniera che, per il suo peso specifico, risulta decisivo per qualunque scenario si voglia profilare. E proprio per anestetizzare i possibili contraccolpi che la crisi egiziana potrebbe generare nello scacchiere mediorientale, le cancellerie occidentali stanno correndo ai ripari invitando, né più né meno, Mubarak a lasciare il potere.

Diversa la posizione israeliana, che con il regime egiziano (e con la Giordania) ha un accordo di pace; Israele sembra notevolmente preoccupata dalla rivolta in corso. Del resto, la sua famosa intelligence (come tutte le altre occidentali) non era stata in grado di anticipare quanto sarebbe avvenuto. Il che, ovviamente, riporta all’ordine del giorno quanto già visto nell’ultima avventura militare in Libano: esercito e intelligence israeliana hanno patito sul campo due lezioni non indifferenti. La questione agita quindi fortemente i sogni del governo israeliano, che vorrebbe un appoggio deciso a Mubarak tale da consentire al Rais l’uso della forza per riportare l’ordine nel paese. Niente di strano d’altra parte: lo Stato ebraico ha nella forza l’unico strumento politico di cui si fida.

Le differenze di vedute che emergono tra Tel Aviv e Washington (e anche con Bruxelles e Ankara), attengono quindi al timore israeliano che il cambio di regime in Egitto possa rimettere in discussione il ruolo filo-occidentale del Cairo. Un paese ai suoi confini non più obbediente, viene visto come una possibile minaccia. Nello specifico, poi, la possibilità che El Baradei (che alla guida dell’Aiea ha dichiarato ripetutamente il suo disaccordo con Washington e Tel Aviv sul nucleare iraniano) possa divenire il nuovo leader egiziano, aumenta ulteriormente i timori; tra questi anche quello di non avere più campo libero contro Teheran.

Il quadro che agita Tel Aviv è questo: a est la monarchia giordana ha sciolto il governo e vede concretamente profilarsi una rivolta sociale, a ovest Mubarak ha già le valigie pronte e, con Hamas a sud ed Hezbollah a nord, con la Turchia non più annoverabile tra i paesi alleati, un’aera fino a pochi giorni fa sostanzialmente stabile minaccia di divenire instabile, dunque pericolosa per Israele e la sua sicurezza. La leadership israeliana vorrebbe quindi allertare i suoi alleati circa la possibilità che possa vacillare la sua certezza di supremazia nell’area. In realtà quello di Israele è un timore sui generis, dal momento che il suo apparato militare è più che sufficiente a sconfiggere ogni operazione sul terreno. Semmai, quello che invece si presenta come una novità non prevista (e sgradita a Tel Aviv) è che politicamente il quadro regionale è ormai molto diverso da come appariva solo due settimane fa.

Il fatto poi che con l’Amministrazione Obama il governo Netanyahu abbia avuto contrasti ripetuti lungo tutto il 2010, sebbene sia un fatto inedito per laforma, è in sostanza solo fumo negli occhi per l’opinione pubblica internazionale e per le cancellerie occidentali; perché per quanto siano state importanti le differenziazioni tra i due Paesi, nessuno può nemmeno ipotizzare una sorta di “neutralità” statunitense nella regione.

Il rapporto con Israele è fortissimo e solo la palese violazione di ogni impegno internazionale e la flagrante violazione di ogni accordo firmato e di ogni decenza nell’agire nella guerra totale combattuta contro i palestinesi, pure disponibili ad ogni tipo di accordo, hanno obbligato la Casa Bianca ad alzare la voce.

Certo, Obama vede nella transizione rapida l’unica via d’uscita alla crisi egiziana e questo, da Israele, viene visto come un ulteriore elemento di scarso feeling con la Casa Bianca, in coerenza con quanto già registrato da un anno in qua. Ma si tratta di divergenze d’opinione in ordine all’espansione ininterrotta degli insediamenti dei coloni, di differenze nell’approccio politico alla questione mediorientale, non di prese di distanza effettive e, meno che mai, di abbandono a se stesso dello Stato ebraico.

Obama non ha nessuna intenzione d’incrinare il rapporto con Israele e tantomeno risulta indifferente alla cornice di sicurezza dell’area. L’alleanza tra i due paesi è più che mai solida. E’ quindi ipotizzabile che le differenziazioni con Usa e UE saranno alla fine risolte con una campagna israeliana affinché, dalla minaccia di mutazione del quadro della sicurezza nell’area, Israele possa ricevere ulteriori superforniture di armamenti così da ammodernare le sue forze armate e minacciare ulteriormente i vicini arabi.

Ma la Casa Bianca crede che per ridurre il rischio di esplosione generalizzata in tutta l’area, che potrebbe portare il Medio Oriente sull’orlo dell’ingovernabilità, serva un’altra politica e, dunque, anche un’altra immagine degli stessi USA presso i Paesi arabi. Washington ritiene che il progressivo reinserimento siriano nel gioco mediorientale, le pressioni ma anche il dialogo con l’Iran, la soluzione del conflitto politico libanese e la moderazione d’Israele nella politica degli insediamenti debbano esser parte dello stesso progetto di controllo dell’area e che questa non possa rischiare di subire contraccolpi d’instabilità politica che, come si è visto, sono difficili da prevedere all’inizio e ancor di più nella loro ricaduta finale.

Cambiare tutto per non cambiare niente, questo è l’obiettivo statunitense ed europeo che a Tel Aviv non comprendono, abituati come sono a ritenersi l’unica democrazia mediorientale e convinti che la supremazia militare israeliana sia l’unica garanzia per la loro sicurezza e quella dell’Occidente. Europa e Stati Uniti, invece, per storia e cultura politica, hanno capito quanto è necessario capire e che Israele non è in grado d’intendere: o la rivolta in tutto il Maghreb trova un suo sbocco politico liberale, o rischia di essere solo il primo momento della rivoluzione che verrà.

 

 

 

 

 

 

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