di Michele Paris

Mentre gli Stati Uniti e i loro alleati aprivano un terzo fronte bellico con le prime incursioni militari in Libia, sabato scorso il presidente Obama ha iniziato una trasferta di cinque giorni in America Latina. Per l’attuale inquilino della Casa Bianca si tratta della prima visita ufficiale oltre il confine meridionale e il tour che lo sta portando in Brasile, Cile ed El Salvador servirà, almeno nelle intenzioni, a cercare di rinsaldare la presenza americana in un continente fin troppo trascurato negli ultimi anni.

L’unico precedente che aveva visto Barack Obama affrontare pubblicamente questioni legate a quello che era il “cortile di casa” degli Stati Uniti era stata finora la sua partecipazione al summit dell’Organizzazione delle Americhe (OSA), andato in scena a Trinidad nell’aprile del 2009. In quell’occasione erano state molte le aspettative per un presidente democratico che, dopo otto anni di amministrazione Bush, sembrava essere finalmente disposto a cooperare con tutti i paesi latinoamericani, mettendo da parte le frizioni con quei governi che hanno fatto una scelta differente dal percorso neo-liberista raccomandato da Washington.

A oltre due anni dall’inizio del suo mandato, nonostante il gradimento ancora relativamente elevato rispetto ad altri continenti, Obama non ha saputo tuttavia concretizzare gli appelli al multilateralismo e al dialogo, ribadendo piuttosto una sostanziale continuità con le scelte del suo predecessore, come è avvenuto di fatto in altri ambiti relativi alla sua politica interna ed estera. Che gli USA non abbiano progredito significativamente lo si è visto con sufficiente chiarezza in questo biennio, durante il quale, ad esempio, Washington ha appoggiato il golpe in Honduras contro il presidente Zelaya nel giugno 2009, non ha fatto segnare progressi significativi nei rapporti con Cuba mentre continua ad eseguire deportazioni indiscriminate di immigrati ispanici.

Con queste premesse, la sortita di Obama in America Latina non può avere altro obiettivo che l’avanzamento degli interessi di banche e corporation domestiche, in primo luogo tramite la promozione di trattati e accordi di libero scambio, così da abbattere le barriere doganali esistenti oppure spingere verso la privatizzazione le imprese rimaste in mano pubblica e aprire la strada ai capitali statunitensi.

La penetrazione americana in un continente che da qualche tempo si sta muovendo orami verso partnership con altri paesi emergenti - Cina in primis - è affidata ancora una volta alla presenza militare (soprattutto in Colombia e Messico), giustificata dalla lotta al terrorismo e da un narcotraffico che continua a causare violenze e decine di migliaia di morti in America Centrale.

La leva della minaccia terroristica è d’altra parte un espediente consolidato, come confermano editoriali simili a quello pubblicato domenica scorsa sul Washington Post da Roger Noriega, ex ambasciatore per gli USA presso l’OSA e assistente al Segretario di Stato tra il 2003 e il 2005. In concomitanza con il viaggio di Obama in Sudamerica,

Noriega ha agitato lo spettro del terrorismo presentando prove innegabili, dal suo punto di vista, delle attività cospiratorie del presidente venezuelano Hugo Chávez e del suo governo, impegnati nel costruire una rete terroristica con inviati di Iran, Hezbollah, Hamas e del Movimento per la Jihad in Palestina. Il fatto che Noriega sia stato l'organizzatore del fallito colpo di Stato in venezuela, naturalmente, non depone a favore di una sua obiettività nell'analisi.

La missione ufficiale di Obama è dunque iniziata lo scorso fine settimana in Brasile. Il presidente americano ha incontrato nella capitale Brasilia e a Rio de Janeiro la neo presidente brasiliana, Dilma Rousseff, da poco succeduta al popolarissimo Lula. Tra una visita alla favela Cidade de Deus e un discorso al Theatro Municipal di Rio, Obama deve avere assistito ai tentativi del primo presidente donna della storia brasiliana di aggiustare i rapporti con Washington - come auspicano le élites economiche locali - dopo i contrasti che avevano segnato l’ultima fase del secondo mandato di Lula. I rapporti tra i due paesi si erano logorati in particolare dopo che Brasile e Turchia nel maggio 2010 avevano promosso un accordo, poi ignorato dall’Occidente, per risolvere la questione del programma nucleare iraniano.

Un segnale di disgelo Dilma Rousseff lo aveva peraltro già lanciato appena insediata ad inizio gennaio, quando aveva rimpiazzato il Ministro degli Esteri del suo predecessore, Celso Amorim, con Antonio Patriota. Già ambasciatore a Washington e sposato con una donna nata negli USA, Patriota è considerato decisamente più filo-americano di Amorim, una delle personalità all’interno del governo brasiliano che più si erano opposte alle sanzioni volute dagli americani nei confronti di Teheran e contro le quali aveva votato il Brasile nel giugno 2010 al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

A far da cornice al primo faccia a faccia tra Obama e Dilma a Brasilia c’erano trecento tra presidenti e amministratori delegati di corporation americane e brasiliane. Tra le altre, di rilievo è stata la presenza della Boeing, interessata ad ottenere un contratto da sedici miliardi di dollari per la fornitura di velivoli militari all’aeronautica brasiliana. Una commessa quest’ultima che Lula sembrava orientato al contrario ad assegnare ad una compagnia francese.

Da non sottovalutare sono poi gli interessi energetici degli Stati Uniti. In un momento di grande incertezza in Nord Africa e in Medio Oriente, per Washington diventa fondamentale garantirsi le forniture brasiliane. Il Brasile, che già invia oltre la metà del petrolio estratto negli USA, ha scoperto da qualche anno ingenti giacimenti al largo delle proprie coste. L’attività estrattiva viene condotta dal colosso pubblico Petrobras, ma le compagnie petrolifere americane sono in prima linea per partecipare alle operazioni.

La maggiore economia latinoamericana può inoltre garantire a Obama la firma di qualche accordo commerciale che il presidente americano sarebbe in grado di presentare come un altro tassello della sua strategia tesa ad incrementare l’export a stelle e strisce. Una promessa elettorale da parte di Obama che era andata di pari passo con quella di aumentare i posti di lavoro per gli americani e che si traduce, nella migliore delle ipotesi, in impieghi sottopagati per consentire alle merci esportate di competere su mercati come quello brasiliano.

Nei circoli di potere brasiliani, tuttavia, restano molti malumori nei confronti degli Stati Uniti e della Fed, accusata a ragione di condurre una politica monetaria che indebolisce il dollaro, così da favorire le esportazioni americane, e determina la supervalutazione del real, penalizzando di conseguenza le merci locali. Un motivo di contrasto sul valore delle monete che coincide ironicamente con le pressioni di Washington sul Brasile per prendere le distanze dalla Cina, a sua volta accusata di manipolare la propria valuta (renminbi o yuan) e di inondare così il mercato latinoamericano con beni a basso costo.

Più in generale, l’obiettivo primario dell’intera trasferta latinoamericana di Obama sembra essere precisamente il desiderio di contrastare la crescente influenza cinese nel continente. Pechino è ormai il primo partner commerciale di molti paesi sudamericani, a cominciare dal Brasile. Gli scambi del Brasile con la Cina nel 2010 hanno toccato i 56 miliardi di dollari contro i 47 con gli USA che hanno perso questo primato nel 2008. La Cina è inoltre la prima fonte d’investimenti diretti per il Brasile, mentre anche il Cile, seconda tappa del tour di Obama, scambia merci con Pechino più che con qualsiasi altro paese del pianeta.

Dopo Brasile e Cile, il viaggio di Obama si concluderà in El Salvador, un paese che, come i vicini Guatemala e Honduras, è afflitto dalla violenza dilagante delle gang e dei cartelli del narcotraffico e che è impaziente di mettere le mani sugli stanziamenti per la sicurezza erogati dal governo americano e che finora hanno beneficiato pressoché esclusivamente Messico e Colombia.

In El Salvador, Obama incontrerà il presidente Mauricio Funes, ex giornalista della CNN eletto nel 2009 tra le fila del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN), il movimento rivoluzionario trasformato in partito politico al termine della guerra civile. In Funes, come in Dilma Rousseff in Brasile, Obama troverà un interlocutore moderato e pragmatico grazie al quale potrà provare a dimostrare come da Washington si sia disposti a stabilire rapporti cordiali anche con leader latinoamericani più o meno di sinistra.

Un’operazione mediatica quella della Casa Bianca che si inserisce nel tentativo di emarginare quei governi dalle inclinazioni invece più accesamente anti-americane - come Cuba, Venezuela, Nicaragua, Ecuador o Bolivia - che, rebus sic stantibus, difficilmente potranno entrare a far parte del programma di viaggio di un presidente americano.

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