di Carlo Musilli 

Dove non arriva la lunga mano di Washington, forse può arrivare quella di Riyadh. La crisi yemenita non sembra ancora vicina a una soluzione, ma può darsi che i negoziati abbiano finalmente imboccato una strada credibile. Il piano di mediazione proposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo prevede che Ali Abdullah Saleh, dittatore del Paese da oltre 30 anni, lasci la poltrona al suo vice, Abdrabuh Mansur Hadi. A quel punto verrebbe costituito un governo provvisorio guidato dall'opposizione, che avrebbe il compito di traghettare lo Yemen fino alle sue prime elezioni democratiche, probabilmente nel 2013.

Agli insorti il piano è apparso subito un po' troppo vago e indulgente. Lunedì è arrivato un secco rifiuto da parte dei partiti di opposizione. Secondo il Washington Post, addirittura decine di migliaia di persone sarebbero scese in piazza a Sana'a, Taiz, Hudaydah, Ibb e nella provincia meridionale di Hadramaut per protestare contro il piano del Consiglio.

Già dopo 24 ore, tuttavia, i loro rappresentanti hanno abbassato la tensione, cercando di aprire un dialogo coi mediatori del Golfo. In particolare, hanno chiesto loro di spiegare se siano previste le dimissioni immediate di Saleh, condizione primaria per arrivare a un accordo. Il piano non specifica, infatti, quali siano i tempi della transizione al potere. Altro nodo fondamentale è il destino che attende il dittatore e i membri della sua famiglia, alcuni dei quali ricoprono ancora oggi ruoli di primo piano nel governo e nell'esercito. Il Consiglio sembra orientato a garantire loro l'impunità, con tanto di esilio dorato chissà dove. Per l'opposizione questo è impensabile: devono essere tutti processati. Mercoledì i capi dei partiti ribelli hanno incontrato gli ambasciatori di Arabia Saudita, Kuwait e Oman per avere chiarimenti su questi aspetti.

Saleh dal canto suo ha accettato subito la proposta. Sono mesi che temporeggia proprio per evitare di finire alla berlina come Mubarak. Questa è un'occasione irripetibile. L'unica incomprensione si è avuta giovedì scorso, quando l'incauto primo ministro del Qatar, Sheik Hamad bin Jassim al-Thani, ha detto che la mediazione del Golfo avrebbe finalmente levato di mezzo il dittatore yemenita. Saleh gli ha subito risposto per le rime, dicendogli di non intromettersi. Parole che i media hanno interpretato come un ripensamento circa la disponibilità a trattare. Ma non era così. Solo uno screzio, nulla di grave.

Intanto in ogni angolo dello Yemen migliaia di manifestanti anti-Saleh continuano a scontrarsi con militari e poliziotti fedeli al leader. La conta dei morti prosegue ogni giorno. Ormai è evidente che la rivoluzione armata non è una strada percorribile fino in fondo. Gli insorti possono contare sull'aiuto di alcuni reparti dell'esercito passati dalla loro parte, ma non hanno comunque una capacità militare adeguata alle dimensioni del conflitto.

Martedì la polizia ha attaccato alcuni ufficiali schierati dalla parte del generale ribelle Ali Mohsen. E' successo in un posto di blocco ad Amrane, 170 chilometri dalla capitale Sana'a. Il bilancio è stato di cinque morti e dieci feriti. Vittime anche nel sud del Paese, ad Aden, dove le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro una folla di dimostranti scesi in piazza per uno sciopero generale. Due i manifestanti uccisi.

Nel frattempo, secondo quanto riferito dall'agenzia cinese Xinhua, l'esercito yemenita è impegnato anche su un altro fronte. Domenica i militari si sono scontrati con i miliziani di Al Qaeda in diverse regioni della provincia meridionale di Abiyan. Prima hanno indietreggiato, poi si sono ritirati.

Tutte le parti in campo sanno che, se non si trovasse un accordo di pace per via politica, la guerra civile continuerebbe ancora per molto tempo e probabilmente consegnerebbe il Paese nelle mani dei capi tribù, dei gruppi indipendentisti e dei terroristi islamici. Un rischio che fuori dallo Yemen nessuno ha intenzione di correre.

Gli Stati Uniti da tempo facevano pressioni sull'Arabia Saudita perché intervenisse a riportare la stabilità. E il principale alleato arabo di Washington alla fine si è mosso. Al Consiglio di Cooperazione del Golfo prendono parte anche i ministri degli esteri di Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, e Emirati Arabi Uniti. Ma, com'è ovvio, quando si tratta di prendere decisioni cruciali è il loro collega saudita a stabilire le mosse.

Non a caso la settimana scorsa il Consiglio aveva invitato Saleh e i suoi oppositori a incontrarsi proprio a Riyadh (ma anche in questo caso non era stata proposta alcuna data). La mediazione che si profila all'orizzonte potrebbe avere successo anche perché l'Arabia Saudita è da sempre il primo tra i finanziatori esteri dello Yemen. Soldi che, negli anni, hanno comprato la fiducia di Saleh.

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