di Michele Paris

A conferma del progressivo deterioramento dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Pakistan, il governo di Karachi qualche giorno fa ha chiesto a Washington un considerevole disimpegno dalle operazioni in corso sul proprio territorio. Le richieste di Islamabad sono giunte in concomitanza con alcuni incontri bilaterali ad alto livello e s’inseriscono in un’atmosfera di crescente ostilità nei confronti degli americani, diffusa ormai non solo tra la popolazione locale ma anche tra le élites pakistane, sempre più diffidenti verso gli obiettivi del potente alleato.

Ad esporre ufficialmente la nuova presa di posizione del governo pakistano agli USA sarebbe stato l’autorevole capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani. Agli americani sarebbe stato chiesto di ridurre sensibilmente il numero di agenti CIA e delle Operazioni Speciali impiegati in Pakistan, così come lo stop ai bombardamenti nelle aree di confine con l’Afghanistan che gli stessi servizi segreti a stelle e strisce conducono con i cosiddetti droni (velivoli senza pilota).

Gli agenti operativi da richiamare in patria, secondo fonti pakistane anonime citate da alcuni giornali americani, sarebbero più di trecento, compresi tutti i contractors privati; il numero corrisponde a circa il 40 per cento del totale dei loro uomini attivi nel paese. Il messaggio di Kayani agli americani è stato recapitato il giorno successivo alla visita di lunedì scorso negli Stati Uniti del numero uno della principale agenzia di intelligence pakistana (ISI), generale Ahmed Shuja Pasha. Quest’ultimo ha incontrato a Washington il direttore della CIA, Leon Panetta, e il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen.

Nonostante i portavoce della CIA abbiano assicurato che durante le quasi quattro ore di colloquio non si sia fatto alcun riferimento all’imminente richiesta di ridurre le operazioni statunitensi in Pakistan, ciò risulta in realtà estremamente probabile e rivela a sufficienza le tensioni più o meno latenti tra i servizi segreti dei due paesi. Tanto più che l’ISI (Inter-Services Intelligence Directorate) è alle dipendenze proprio delle forze armate pakistane, guidate dal generale Kayani, e che quest’ultimo è in piena sintonia con Pasha. Recentemente, infatti, è stato proprio Kayani a chiedere al suo governo di prolungare la permanenza di Pasha al vertice dell’influente agenzia spionistica.

Da parte della CIA, come ha riportato il Washington Post, si continua a negare che le autorità pakistane abbiano chiesto di ritirare agenti e interrompere gli attacchi con i droni. L’intelligence USA ha tuttavia confermato i contrasti con il Pakistan, annunciando che verranno prese alcune iniziative per soddisfare le preoccupazioni dell’ISI, a cominciare dalla trasmissione di maggiori informazioni circa gli agenti di stanza nel paese e da una maggiore collaborazione nella scelta degli obiettivi dei droni.

La contesa sul ruolo degli agenti della CIA è esplosa in particolare dopo la vicenda della spia americana Raymond Davis, arrestato a Lahore lo scorso gennaio per l’uccisione di due cittadini pakistani che seguivano la sua auto a bordo di una motocicletta. Gli USA avevano chiesto la liberazione immediata del loro uomo, facendo appello all’immunità diplomatica. Dopo alcune settimane di carcere, Davis è stato rilasciato grazie ad un accordo, perfettamente legale secondo la legge pakistana, che ha garantito alle famiglie delle due vittime un cospicuo risarcimento in denaro.

Il caso di Raymond Davis, sia pure risolto secondo quanto auspicato fin dall’inizio dai due governi, ha peggiorato innegabilmente i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. L’insistenza con cui gli Stati Uniti ne chiesero il rimpatrio - lo stesso presidente Obama fece un appello al governo di Islamabad - tradisce l’importanza e la delicatezza del ruolo da lui ricoperto in Pakistan. Per questo, gli americani andarono su tutte le furie di fronte alle resistenze della giustizia pakistana e, soprattutto, dopo i quattordici giorni d’interrogatori a cui Davis venne sottoposto dai servizi segreti locali.

Su molti giornali sono apparse in queste settimane rivelazioni inquietanti sull’incarico di Raymond Davis in Pakistan. I suoi oscuri rapporti con alcune organizzazioni ribelli, è stato ipotizzato, potevano essere finalizzati a favorire attacchi terroristici in Pakistan, così da destabilizzare un governo centrale già debole e giustificare un intervento diretto degli americani. Non è un segreto, d’altra parte, che le forze armate pakistane ritengano che il vero obiettivo degli USA sia un’escalation delle operazioni militari nel loro paese, così come la messa in sicurezza delle armi nucleari di cui dispone.

Le possibili informazioni estorte a Raymond Davis dagli interrogatori dell’ISI e il crescente malcontento popolare nei confronti degli Stati Uniti, potrebbero aver spinto dunque le autorità pakistane - significativamente quelle militari, di gran lunga più autorevoli e influenti rispetto a quelle civili - ad alzare la voce con Washington. La campagna dei droni, in particolare, risulta avversata dalla popolazione locale, alla luce delle numerose vittime civili innocenti causate da questi attacchi che dovrebbero colpire invece esclusivamente esponenti di gruppi terroristici.

Queste incursioni si sono intensificate negli ultimi due anni e, secondo gli americani, sarebbero indispensabili per rimediare all’incapacità del Pakistan di colpire i gruppi ribelli che operano oltre il confine, nell’Afghanistan occupato. Anche da Washington, peraltro, non vengono risparmiate lamentele nei confronti di Islamabad, dove ogni anni viene recapitato qualcosa come un miliardo di dollari in aiuti. Solo qualche giorno fa, ad esempio, un rapporto della Casa Bianca al Congresso ha evidenziato come gli sforzi del governo pakistano per contrastare i talebani e le altre organizzazioni estremiste non abbiano praticamente alcuna possibilità di successo.

L’atteggiamento ambiguo del Pakistan riflette d’altronde una risaputa necessità strategica di vitale importanza. I militari pakistani non intendono cioè distruggere realmente la resistenza dei ribelli, continuando a considerare i talebani un potenziale alleato per esercitare la propria influenza sull’Afghanistan in un futuro senza la presenza americana, ovviamente in funzione anti-indiana. Non a caso i talebani pakistani (Lashkar-e-Taiba) continuano a mantenere stretti legami con i servizi segreti pakistani.

In questi oscuri intrecci di rapporti tra i vari protagonisti sul campo e con interessi contrastanti in gioco, è evidente come le relazioni tra Stati Uniti e Pakistan si basino su fondamenta assai precarie. La mano pesante degli americani ha finito poi, inevitabilmente, per suscitare la dura reazione del governo di Islamabad, mettendo a repentaglio una collaborazione che da Washington si continua a ritenere fondamentale nella guerra di occupazione in corso in Asia centrale.

Ciò che attende i due paesi nell’immediato futuro sembra essere allora una revisione complessiva dei loro rapporti bilaterali, le cui conseguenze sul futuro della guerra in Afghanistan e sugli equilibri nell’intera regione saranno tutte da valutare.

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