di Michele Paris

Il raid americano che lo scorso 2 maggio ha portato all’assassinio di Osama bin Laden in una cittadina pakistana ha causato un evidente peggioramento nei già complicati rapporti tra Washington e Islamabad. Le successive pressioni da parte di Stati Uniti e India sul Pakistan per troncare ogni legame con i gruppi islamici che operano sul suo territorio ha ulteriormente spinto il governo di quest’ultimo paese a riconsiderare le proprie priorità strategiche.

Si è svolto in questo quadro il più recente viaggio in Cina del primo ministro pakistano, Yousuf Raza Gilani, tra il 17 e il 20 maggio scorso. Il terzo incontro di Gilani con le autorità cinesi in meno di un anno e mezzo è andato in scena ufficialmente per celebrare i 60 anni di relazioni diplomatiche tra Pakistan e Cina. I contenuti della visita hanno evidenziato la volontà dei due storici alleati di rafforzare una partnership che, oltre ad essere motivo di nuove frizioni tra Pakistan e Stati Uniti, promette di contribuire all’inasprirsi della rivalità tra Cina da una parte e USA e India dall’altra.

Tra i motivi di maggiore apprensione a Washington c’è la decisione di accelerare la produzione e la consegna di 50 aerei da combattimento “JF-17 Thunder”, nati appunto dalla collaborazione tra Cina e Pakistan. L’assegnazione del porto di Gwadar, in Belucistan, al controllo cinese è poi un’altra questione scottante. Al ritorno dalla trasferta a Pechino, il Ministro della Difesa pakistano, Chaudhry Ahmad Mukhtar, ha infatti annunciato l’accettazione da parte della Cina della gestione del porto affacciato sul Mare Arabico - assieme alla costruzione di una base navale - una volta risolto il contratto con una compagnia di Singapore che non avrebbe investito a Gwadar il denaro promesso.

Il controllo di Gwadar consentirebbe ai cinesi di avere una base navale sul Mare Arabico e di facilitare il trasporto delle forniture di petrolio e gas naturale provenienti dal Medio Oriente, evitando lo Stretto di Malacca. Nonostante le mire della Cina verso questa località costiera pakistana, il Ministro Mukhtar è stato però gelato dall’immediata smentita ufficiale di Pechino.

Come ha scritto la testata on-line Asia Times, l’atteggiamento cauto della Cina sembra essere dovuto a una serie di ragioni, a cominciare dalla pericolosità nell’investire in un porto commerciale poco frequentato e carente di infrastrutture. Ancora più importanti possono essere stati i calcoli cinesi sull’opportunità politica e strategica di gestire Gwadar. Una presenza cinese qui darebbe cioè la giustificazione agli Stati Uniti di prolungare la loro presenza nella regione e di continuare a premere sul Pakistan. Infine, l’instabilità del Belucistan, dove è attivo un movimento indipendentista, può aver contribuito alla diffidenza cinese.

L’equivoco sul porto di Gwadar può riflettere da una parte la cautela di Pechino nell’espandere la propria influenza nel continente asiatico, mentre dall’altra rappresenta un’infelice uscita del governo di Gilani, ansioso di far capire a Washington che la Cina è pronta ad accogliere il Pakistan nel caso i rapporti tra i due paesi dovessero giungere ad un punto di non ritorno. Tutto ciò non contraddice comunque l’affermarsi di un asse tra Cina e Pakistan, come confermano molti altri segnali.

Sulla morte di bin Laden, ad esempio, Pechino non ha condannato apertamente l’azione americana ma ha elogiato gli sforzi del Pakistan nel combattere il terrorismo. La Cina avrebbe anche chiesto agli Stati Uniti di riconoscere questo ruolo e di tenere in considerazione la complicata situazione in cui le autorità di Islamabad si trovano ad operare. Secondo un quotidiano locale, addirittura, il Ministro degli Esteri cinese in una recente visita a Washington avrebbe avvertito gli americani che un eventuale attacco nei confronti del Pakistan verrebbe interpretato come un attacco alla Cina.

Inoltre, nel dicembre dello scorso anno, al termine di un vertice sino-pakistano a Islamabad, vennero firmati decine di accordi bilaterali in vari settori per un totale di 35 miliardi di dollari. Il tutto nel quadro di un commercio tra i due paesi che è cresciuto del 30 per cento tra il 2009 e il 2010, fino a sfiorare i 7 miliardi di dollari l’anno. Alla partnership economica va sommata quella militare, suggellata dalle esercitazioni congiunte del marzo scorso. In quell’occasione l’aviazione cinese ha operato per la prima volta nello spazio aereo pakistano, mentre nuove manovre di terra sono già programmate per i prossimi mesi.

Per le élites pakistane la collaborazione con gli Stati Uniti rappresenta da tempo un punto fermo, soprattutto alla luce dei circa venti miliardi di dollari in aiuti versati da Washington nell’ultimo decennio. Le relazioni tra i due paesi, rese già difficili da un vasto sentimento anti-americano tra la popolazione del Pakistan, sono peggiorate dopo l’11 settembre, quando gli USA hanno imposto i propri interessi strategici in Asia centrale (dal controllo delle fonti energetiche nella regione al contenimento della Cina).

I legami del Pakistan con i Talebani, prima e dopo la loro cacciata da Kabul, erano e continuano però ad essere visti come fondamentali per evitare un accerchiamento ad opera dell’India. Quando poi gli Stati Uniti hanno fatto dell’India un partner strategico, in funzione anti-cinese, incoraggiando una maggiore partecipazione di Nuova Delhi alla ricostruzione dell’Afghanistan, a Islamabad si è cominciato a temere per la propria stessa esistenza. Da qui, la necessità di allentare le pressioni di Washington, diventate ancora più insistenti dopo l’uccisione di bin Laden e le accuse di fornire sostegno ai terroristi, rafforzando i legami con la Cina.

Se la risposta indiana è stata quella di minacciare una possibile nuova corsa agli armamenti per contrastare questa doppia minaccia, dagli USA le reazioni sono finora piuttosto misurate, almeno pubblicamente.

Per gli americani, d’altronde, il Pakistan rimane un alleato decisivo per risolvere il pantano afgano, per aprire colloqui di pace con i talebani e per continuare ad assicurarsi le rotte dei rifornimenti alle forze NATO, che partono dal porto di Karachi e attraversano il confine nei valichi situati nelle province nord-occidentali del paese.

Gli stessi vertici politici e militari pakistani, al di là delle talvolta dure prese di posizione pubbliche verso Washington, hanno cercato finora di mantenere un delicato equilibrio tra gli Stati Uniti e la Cina, anche se in prospettiva futura una maggiore vicinanza a Pechino sembra essere ora più produttiva, secondo i calcoli di Islamabad.

L’affrancamento del Pakistan dagli USA e l’ulteriore avvicinamento alla Cina, tuttavia, appare tutt’altro che scontato o privo di ostacoli. Se da Pechino ci si muove tradizionalmente con circospezione e pragmatismo per non sconvolgere equilibri di potere consolidati e mettere a rischio i propri interessi strategici ed economici, gli stessi pakistani non possono disfarsi facilmente di un legame con Washington che garantisce ingenti aiuti economici e forniture militari, soprattutto in vista di una prolungata occupazione del vicino Afghanistan.

In questo complesso intreccio, in ogni caso, il sovrapporsi agli antagonismi locali delle rivalità che dividono le due principali potenze del pianeta rischiano di aggravare i conflitti esplosivi che ruotano attorno al controllo della regione centro-asiatica, con pericolose conseguenze per l’intero pianeta.

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