di Mario Braconi

Isabel Kershner, del New York Times, racconta in presa diretta come sta vivendo la gente del campo profughi di Kalandia il rally dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite; quello che, come dice l’analista politico Khalil Shikaki, rappresenta “il compromesso tra quanti [tra i palestinesi] sono pronti ad azioni drammatiche e quelli che invece si accontentano dello status quo, per quanto drammatico”.

La gente di Kalandia, situata tra Gerusalemme e Ramallah, appare tiepidamente favorevole all’iniziativa di Mahmud Abbas. Pur essendo consapevoli dei possibili contraccolpi (in particolare del possibile taglio del sostegno finanziario americano) le persone sentite dalla Kershner restano generalmente convinte che “qualche cosa bisognava fare”; in fondo, come sostiene Selwa Yassin del villaggio di Eyn Yabrud, “qualsiasi cosa accada, sarà sempre meglio che perdere del tutto la Palestina”.

Abbas, per sostenere la sua campagna “Palestina 194” (ovvero Palestina centonovantaquattresimo Stato delle Nazioni Unite), ha messo a punto una strategia accorta, che si potrebbe riassumere così: massima esposizione a New York e profilo basso a casa. “Niente scontri, niente caos, dal lato nostro” ha riferito ai giornalisti la scorsa settimana. “Le nostre istruzioni alla popolazione sono nette: non andate ai posti di blocco, non cercate l’attrito con i soldati israeliani, se sono loro ad entrare nelle nostre città, non reagite” ha proseguito.

L’attenzione in questo momento è tutta sulla non violenza: non a caso, per dare maggior credibilità alla campagna è stato reclutato Abdallah Abu Rahama. Oltre a fare il maestro, Abu Rahma è stato coordinatore del Comitato Popolare di Bil’in contro il Muro, che si opponeva alla costruzione di una “barriera di sicurezza” che tagliava in due il suo villaggio (Bil’in). Per la cronaca, a forza di proteste (e di carte bollate), a fine giugno di quest’anno il muro è stato rimosso e riposizionato come richiesto dalla Suprema Corte israeliana (il sito ufficiale di IDF ha l’impudenza di far notare che l’operazione di ricollocamento della barriera e la risistemazione degli olivi che vi si trovano sono costati parecchi soldi al contribuente israeliano...).

A fine dicembre del 2009 Abu Rahama è stato arrestato dagli Israeliani con l’accusa di possesso di pallottole di M16, di fumogeni e granate, che “l’imputato e i suoi sodali hanno usato per una esposizione che mostrava alla gente i mezzi impiegati dalla forze di sicurezza israeliane”. Abu Rhama ha confermato di aver esposto gli ordigni esplosi per una piccola mostra, il cui obiettivo era documentare i metodi muscolari con cui IDF reprime le proteste dei palestinesi.

L’obiettivo peraltro non è stato mai segreto, anche se Abu Rhama ha sempre negato che tra gli oggetti raccolti vi fossero proiettili di M16. Quest’ultima accusa, sempre secondo Abu Rahma, proverrebbe da uno dei tanti giovani arrestati dall’esercito in concomitanza con le contestazioni della gente di Bil’in.

Non sempre le imputazioni che piovono sui personaggi in vista dei movimenti di sollevazione contro gli abusi perpetrati da IDF si rivelano fondate. Racconta Amira Hass su Haaretz che una corte militare ha a suo tempo scagionato un altro attivista di Bil’in, Mohammed Khatib, dall’accusa di lancio di pietre: non poteva fare altro, anche perché se Khatib fosse riuscito a lanciare pietre a Bil’in dalla località estera dove si trovava il giorno in cui secondo l’accusa avrebbe consumato il reato, ci si sarebbe trovati di fronte ad un fenomeno paranormale.

In ogni caso, a dicembre 2009 fece scalpore l’arresto di Abu Rahma, divenuto presto uno dei simboli della rabbia del popolo palestinese contro il “muro di sicurezza” a West Bank: del resto, nessuno poteva immaginare che il possesso di munizioni esplose (da altri) potesse essere una buona ragione per finire in galera. L’arcivescovo premio Nobel per la pace (1984) Desmond Tutu ha avuto modo di conoscere Abu Rahma nel corso di una sua visita nei Territori nell’estate del 2009, riportandone un’impressione molto favorevole: “Siamo colpiti dalla dedizione di Abu Rahma e di Khatib all’azione politica pacifica e dal loro successo nell’azione di sfida contro il muro che arbitrariamente separa la gente di Bil’in dai loro olivi”, si legge nei memorandum della delegazione di leader internazionali di cui faceva parte anche l’arcivescovo sudafricano.

Tutu condannò apertamente l’arresto di Abu Rhama, chiedendo alle autorità israeliane il suo immediato rilascio. Questo purtroppo non ha impedito al maestro di Bil’in di passare 15 mesi dietro le sbarre: egli è stato liberato solo il 15 marzo di quest’anno.

Oggi Abu Rahma, nella sua veste di “testimonial” di "Palestine 194", vorrebbe portare quante più persone nelle piazze: “Stiamo cercando di somigliare alla primavera araba”, ha detto. Un’esplosione di violenza sarebbe deleteria per i palestinesi: oltre alle ovvie azioni repressive israeliane, il rischio, qui, è di rafforzare Hamas.

Sullo sfondo resta il più prosaico ma non meno importante tema del denaro americano: se cessasse di affluire nelle casse dell’Autorità Palestinese, la paralisi sarebbe più che certa. Secondo Kershner, i palestinesi sembrano in generale orientati ad abbracciare la resistenza non violenta, dopo due Intifada che non hanno portato grossi dividendi politici. Resta però la preoccupazione: poiché portare moltitudini nelle piazze potrebbe scatenare forze incontrollabili. La speranza è che prevalga il buonsenso.

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