di Michele Paris

In attesa della pubblicazione ufficiale del rapporto sul programma nucleare iraniano da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), alcune indiscrezioni sui contenuti sono già apparse in questi giorni sulla stampa di mezzo mondo. Secondo i rapporti di intelligence pervenuti all’agenzia delle Nazioni Uniti con sede a Vienna, la Repubblica Islamica avrebbe ormai acquisito le capacità per costruire un ordigno nucleare, anche se non esiste prova che il governo di Teheran sia effettivamente incamminato su questa strada.

L’ottenimento dei vari componenti e del know-how necessari a creare in tempi relativamente brevi un’arma di questo genere è il risultato delle ricerche sul nucleare che l’Iran avrebbe portato avanti in questi ultimi anni. Questa tesi, se confermata, smentirebbe clamorosamente le precedenti conclusioni dell’intelligence americana, presentate nel 2007 dall’amministrazione Bush, nelle quali si sosteneva che l’Iran aveva abbandonato la ricerca sul nucleare a scopi militari nel 2003 in seguito alle pressioni della comunità internazionale.

Il rapporto dell’AIEA sarà reso noto in maniera ufficiale non prima di mercoledì, ma fonti anonime hanno già fornito alla stampa gran parte del suo contenuto. Le difficoltà che l’Iran ha incontrato nel condurre i propri test, spiegano diplomatici e funzionari a conoscenza dello studio, sarebbero state superate anche grazie all’assistenza di tecnici stranieri. In particolare, il rapporto cita Vyacheslav Danilenko, ex scienziato sovietico, reclutato negli anni Novanta da Teheran per sviluppare un complesso meccanismo necessario per giungere alla realizzazione di un’arma nucleare. Agli sforzi iraniani avrebbero contribuito anche i tecnici nordcoreani e il padre del nucleare pakistano, Abdul Qadeer Khan.

Uno degli indizi decisivi contenuti nell’atto d’accusa dell’AIEA contro l’Iran sarebbe l’attività di ricerca su armamenti nucleari condotta presso la base militare di Parchin. In passato, le autorità iraniane avevano ammesso di lavorare a procedimenti legati all’ambito militare a Parchin, anche se limitati però alle armi convenzionali. Un’affermazione quest’ultima confermata dagli stessi ispettori AIEA ammessi all’interno dell’impianto. Ora, tuttavia, la agenzie di intelligence occidentali sostengono che negli ultimi anni le cose sono cambiate drasticamente a Parchin.

Per gli Stati Uniti, l’imminente rapporto dell’AIEA conferma dunque la pericolosità dell’Iran, anche se i vertici di questo paese non avrebbero ancora preso la decisione definitiva di indirizzare verso la costruzione di armi atomiche gli sforzi fatti dalla ricerca. Come fa notare il New York Times, in ogni caso, il quadro è tutt’altro che completo e le restrizioni imposte da Teheran agli ispettori AIEA in questi anni – anche in seguito alle intimidazioni occidentali – rendono il vero stato del programma nucleare iraniano di difficile lettura.

Come previsto, la risposta dell’Iran al rapporto sono state molto dure. Il ministro degli Esteri ed ex negoziatore sul nucleare, Ali Akbar Salehi, ha affermato che “la controversia sul nostro programma nucleare è al cento per cento politica” e che l’AIEA “è sottoposta alle pressioni delle potenze straniere”. Secondo Salehi, l’Iran avrebbe già risposto all’agenzia con un proprio rapporto di 117 pagine, mentre le accuse rivolte al suo paese si basano su informazioni false, come già accaduto con la denuncia delle armi di distruzione di massa attribuite al regime di Saddam Hussein, sfruttata per lanciare l’invasione dell’Iraq nel 2003.

Che i documenti in possesso dell’AIEA siano manipolati non è d’altra parte da escludere a priori, dal momento che fanno riferimento a rapporti di intelligence di Stati Uniti, Israele e altri paesi europei, i quali da tempo si adoperano più o meno apertamente per rovesciare il regime di Teheran. L’Iran, da parte sua, ha sempre sostenuto invece che il proprio programma nucleare è solo ad uso civile e in questo senso agisce in piena legittimità, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione.

Le anticipazioni dell’AIEA erano state precedute da una nuova escalation di minacce verso della Repubblica Islamica, provenienti soprattutto da USA e Israele. A far dubitare dell’imparzialità delle conclusioni dell’agenzia di Vienna era stato anche un recente viaggio a Washington del suo direttore, il filo-americano Yukia Amano, il quale aveva incontrato alla Casa Bianca alcuni esponenti del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. I leader iraniani avevano puntato il dito contro questa visita inopportuna che sarebbe servita, a loro dire, a coordinare gli attacchi verbali contro Teheran in vista appunto della pubblicazione del rapporto AIEA.

Le accuse e le pressioni americane sull’Iran sembrano volte a raccogliere sufficiente consenso nella comunità internazionale per imporre una nuova serie di sanzioni contro Teheran. Dal 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato quattro volte per applicare sanzioni contro l’Iran, l’ultima delle quali nel giugno 2010. Eventuali nuove misure andrebbero ora a toccare il cruciale settore del petrolio e del gas naturale. Anche per questo motivo, appare però molto difficile che Cina e Russia - le quali hanno forti interessi nel settore energetico iraniano - possano dare il proprio assenso a nuove sanzioni, limitando così l’iniziativa occidentale a sanzioni unilaterali. A conferma dell’opposizione di Mosca e Pechino ai piani di Washington, i due governi hanno rilasciato un insolito comunicato unitario in risposta al rapporto AIEA, nel quale si afferma che “Russia e Cina sono dell’idea che un simile documento serve soltanto a mettere in un angolo l’Iran”.

Se la strada delle sanzioni appare ufficialmente quella preferita dall’Occidente e da Israele, l’opzione militare è nuovamente tornata in primo piano nelle ultime settimane. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Yediot Aharonot il 28 ottobre scorso, il premier Netanyahu e il ministro della Difesa, Ehud Barak, avrebbero cercato in tutti i modi di persuadere il proprio gabinetto, così come i settori più riluttanti delle forze armate e dell’intelligence, della necessità di un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane.

In un’intervista alla BBC un paio di giorni fa, lo stesso Barak – esponente di spicco del governo di un paese che possiede centinaia di armi nucleari non dichiarate – ha ribadito di “non poter sottovalutare la natura della minaccia iraniana alla stabilità dell’intera regione”. Sempre domenica, da Israele è intervenuto anche il presidente Shimon Peres, presunta colomba nonché premio Nobel per la Pace, il quale al quotidiano Israel HaYom ha ammesso che “siamo sempre più vicini ad un attacco militare contro l’Iran piuttosto che a una soluzione diplomatica”.

Alla retorica si aggiungono alcune manovre militari di Israele che indicano la preparazione di un blitz militare. Settimana scorsa Tel Aviv ha infatti testato un missile balistico a lungo raggio con il potenziale di colpire il territorio iraniano. Inoltre, da una base NATO in Sardegna è andata in scena un’esercitazione con aerei da guerra israeliani per missioni a lungo raggio. Infine, nel week-end appena trascorso l’assistente al Segretario di Stato USA per gli affari militari, Andrew Shapiro, ha annunciato un’altra esercitazione congiunta dei due paesi per testare le capacità di Israele di far fronte ad un attacco missilistico simile a quello che scatenerebbe l’Iran in caso di aggressione.

Se la stampa ufficiale negli Stati Uniti continua a scrivere degli scrupoli della Casa Bianca e dei timori per un’azione unilaterale israeliana contro l’Iran, in realtà le vedute dei due alleati appaiono pressoché identiche. Non solo, anche le altre principali potenze occidentali sono pronte a prendere parte ad un eventuale attacco militare, come ha rivelato ad esempio un’inchiesta del Guardian la settimana scorsa a proposito dei piani bellici britannici in vista di un conflitto con Teheran.

In ultima analisi, a ben vedere, i timori occidentali e di Israele nei confronti dell’Iran poco o nulla hanno a che fare con la questione del nucleare. Per Tel Aviv gli effetti della Primavera Araba hanno prodotto effetti a di poco sgraditi, come il rovesciamento di regimi compiacenti - a cominciare da quello di Hosni Mubarak in Egitto - e l’esplosione di proteste e manifestazioni anti-governative senza precedenti all’interno dei propri confini. In una tradizione provocatoria ampiamente consolidata, un’aggressione militare contro l’Iran rappresenterebbe perciò un modo per distogliere l’attenzione dai problemi interni e per riguadagnare terreno sullo scacchiere mediorientale.

Per gli Stati Uniti, invece, il nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Teheran coincide con l’ammissione del sostanziale fallimento delle missioni in Iraq (dove buona parte delle truppe abbandoneranno un paese sempre più sotto l’influenza iraniana entro la fine dell’anno) e in Afghanistan – dove il disimpegno USA è previsto per il 2014 – e la necessità di mantenere la propria supremazia in un’area cruciale del pianeta.

Ben consapevoli delle disastrose conseguenze che un nuovo conflitto in Medio Oriente scatenerebbe nella regione e non solo, i governi di Stati Uniti e Israele sono pronti nondimeno ad accettarne il rischio pur di difendere i propri interessi strategici. Il rapporto dell’AIEA sul programma nucleare di Teheran, in questo scenario, non è altro che una parte della propaganda orchestrata per convincere l’opinione pubblica dell’inevitabilità della soluzione militare per risolvere definitivamente il “problema” iraniano.

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