di Fabrizio Casari

Il Comandante Daniel Ortega sarà ancora per cinque anni il presidente del Nicaragua. Con il 63% dei voti, infatti, il leader del Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional ha stravinto le elezioni celebratesi ieri. Obbedendo quindi ai pronostici elettorali e, soprattutto, agli interessi popolari, tre milioni e ottocentomila nicaraguensi, chiamati a scegliere il Presidente della Repubblica, i 90 deputati che formeranno il nuovo Parlamento nazionale e i venti deputati da inviare al Parlamento centroamericano, hanno deposto nelle urne elettorali un messaggio chiaro e forte, un concetto semplice quanto inequivocabile: il Nicaragua ha bisogno dei sandinisti.

L’opposizione, coerentemente con gli standard di decenza che la contraddistingue, non riconosce la vittoria dei sandinisti. La ragione è semplice: riconoscere la vittoria di Ortega, per le dimensioni che presenta, significa la rottamazione implicita della destra nicaraguense, mai nella storia così minoritaria nel paese. Gli Stati Uniti corrono in soccorso dei loro soci: si dicono preoccupati del voto in Nicaragua e ammiccano alle accuse della destra contro immaginifici “brogli”, che sono l’esito di liti nate in una decina di seggi organizzate proprio dai rappresentanti liberali, allo scopo di tentare di opacizzare quella che si sapeva sarebbe stata una vittoria schiacciante quanto cristallina.

In parte la lagnanza si deve al fatto che l’ambasciata Usa a Managua aveva preteso di poter svolgere un ruolo da “osservatore” nei seggi; la pretesa - assurda data l’impossibilità per rappresentanti di governi di svolgere il ruolo di osservatori al di fuori degli organismi internazionali deputati - era stata appunto respinta da Samuel Santos, il Ministro degli Esteri del Nicaragua, che ha definito la pretesa statunitense “ una intromissione negli affari interni del Nicaragua”.

Ma la preoccupazione statunitense non ha nulla a che vedere con la regolarità del voto che la stessa Unione Europea e l’Organizzazione degli Stati Americani hanno certificato, limitandosi a riferire di difficoltà incontrate in una ventina di seggi: né potrebbero avere qualche fondamento le presunte attenzioni di Washington per le regole democratiche, visti i precedenti nella regione, dove proprio gli Usa hanno ispirato e organizzato, diretto e coperto politicamente il colpo di Stato di Micheletti ai danni del legittimo Presidente Zelaya. Per inciso, il giubilo della destra nicaraguense per Micheletti ha raccontato bene le aspirazioni nascoste del blocco reazionario dell'intero emisfero. La preoccupazione degli Usa per il voto nicaraguense, però, è tutta politica, di fronte ad un altro quinquennio sandinista che rafforza il blocco democratico e progressista latino-americano e, più in particolare, l’unità tra Cuba, Nicaragua, Venezuela, Bolivia ed Ecuador che preoccupa non poco la Casa Bianca.

La dimensione schiacciante della vittoria di Daniel Ortega indica come il voto sia stato, prima ancora che una scelta ideologica, la certificazione di un gradimento generale per quanto prodotto da cinque anni di buon governo. Senza particolare furore ideologico, depennato in buona parte dalla nuova era del FSLN, il governo di Daniel Ortega ha ottenuto successi importanti nel panorama sociale ed economico del disastrato paese centroamericano, rimettendo la politica alla direzione del paese e i mercanti in veste subordinata alla politica.

Una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto mostrato dai governi liberali succedutisi per 16 anni con politiche furono dirette soprattutto alla distruzione delle riforme sociali ed economiche promosse dalla Rivoluzione nella decada sandinista. Lo spettacolo offerto dai governi di Violeta Chamorro (1990), Arnoldo Aleman (1996) ed Enrique Bolanos (2001) hanno avuto, infatti, un’identica linea la cui origine era l’obbedienza cieca al Washington consensus e la cui fine era quella di riportare indietro le lancette dell’evoluzione sociale del Paese.

Il sostegno internazionale di cui godettero fu immenso, così come i prestiti e le moratorie internazionali sui debiti contratti (quello con l’Italia, tra gli altri): al Nicaragua giunsero più dollari che all’insieme dei paesi centroamericani. Ma ciò, in luogo di favorire una crescita economica di un paese che usciva sfiancato dalla guerra, portò il Nicaragua allo stesso livello di indici economici di Haiti, il più povero dell’emisfero.

Un paese letteralmente sull’orlo dell’abisso, precipitato in tutti i suoi indicatori economici e sociali grazie alle politiche neoliberiste dell’oligarchia locale, che per diciassette anni tornò a svolgere il ruolo che ebbe durante la dittatura di Somoza: protettorato degli Usa, riserva naturale per le esigenze industriali del gigante del nord che, a sua volta, premiava con denaro e prebende i suoi funzionari locali travestiti da leader politici. Il prezzo lo pagava la popolazione che, in un paese il cui reddito procapite del 78% della popolazione era di due dollari al giorno, doveva pagarsi istruzione e salute.

Nel 2006, con il ritorno di Daniel e del FSLN al governo, è iniziato il processo di recupero dell’economia nazionale con il ribaltamento delle linee-guida nell’indirizzo dei flussi di spesa. Daniel ereditò un paese dove erano ricomparse malattie endemiche, analfabetismo, disoccupazione (sfiorava il 54% della popolazione lavorativa), dove l’indice di nutrizione arrivava a sfiorare il record di Haiti e dove la somministrazione di energia elettrica era a capriccio della multinazionale proprietaria degli impianti.

Cinque anni dopo la vittoria dei sandinisti, la maggioranza dei nicaraguensi vivono decisamente meglio: oggi l'istruzione e la salute sono completamente gratuite; l'analfabetismo si é ridotto dal 32 al 4%; gli investimenti sono raddoppiati e i salari decuplicati; ottantamila contadine sono diventate produttrici di carne e latte e 217.000 donne hanno ricevuto crediti senza interessi, così come 481.000 produttori agricoli hanno ottenuto crediti agevolati. 152.000 impiegati pubblici ricevono 35 dollari di buoni-pasto in aggiunta al salario e lo Stato ha steso una rete di commercio al dettaglio dove acquistare prodotti a prezzi controllati. Questi i risultati di cinque anni di governo sandinista e la ragione della vittoria elettorale.

In sostanza, Daniel Ortega ha saputo dare forma a quanto dall’opposizione proponeva, mettendo fine alla precarietà energetica e integrando nel suo programma di governo le rivendicazioni dei settori popolari, come la redistribuzione della terra, l’ampliamento del welfare attraverso il programma “fame zero” (mutuato dal brasiliano Lula) la salute e l’istruzione gratuite, riuscendo - attraverso progetti sociali il cui obiettivo è stato la ridistribuzione della ricchezza, pur nel quadro delle possibilità offerte dal recupero economico - a far salire i gradini della scala sociale ai più svantaggiati, offrendo così rappresentazione politica alle vittime di diciassette anni di turbo capitalismo in un paese che, a malapena, avrebbe sopportato un capitalismo light. Una ricetta semplice quella del Comandante-Presidente: includere gli esclusi, limitare lo strapotere dei poderosi.

Una Nicaragua diversa, che ha scommesso sull’integrazione latinoamericana in chiave progressista e che, nel contempo, ha saputo offrire garanzie agli investitori e agli organismi finanziari internazionali che, seppure a condizioni molto diverse da quelle vigenti con i governi precedenti neoliberisti, hanno potuto contribuire efficacemente al finanziamento della nuova economia nicaraguense.

L’opposizione, arricchitasi di qualche decimale in virtù dei traditori dell’antico FSLN, passati armi e bagagli con i nemici storici contro i quali pur avevano combattuto, è arrivata al voto divisa, argomentando solo l’ineleggibilità di Ortega al terzo mandato ma senza nessuna proposta che non fosse la riproposizione degli interessi storici e famelici delle famiglie latifondiste che compongono la burguesia compradora nicaraguense.

Questa generale percezione del suo livello politico e la memoria storica recente hanno quindi determinato il risultato di liberali e soci: quattro partiti variamente denominati che, insieme, non hanno raggiunto il 31% dei voti. Inoltre, la composizione del prossimo Parlamento non favorirà certo il suo rafforzamento politico: se i dati verranno confermati, la destra avrà a disposizione circa 27 deputati contro i 58 sandinisti. Il governo Ortega, godendo della maggioranza assoluta nell’Asamblea Nacional, avrà quindi il cammino spianato per proseguire con l’opera di riassetto equilibrato del paese.

D’altra parte, l’alta voracità con la quale l’opposizione di questi anni si è sempre caratterizzata, non consentiva la ricerca di un candidato unitario antisandinista; ma il risultato complessivo ottenuto indica più e meglio di qualunque analisi cosa i nicaraguensi pensino della combriccola. Mentre il 63% dei voti a favore di Daniel indica come il Frente Sandinista e il Nicaragua siano ancora, trentadue anni dopo l’entrata liberatrice a Managua, cuore e gambe dello stesso corpo. La vittoria di Daniel Ortega riafferma che la ricostruzione del paese andrà avanti. Il Nicaragua celebra ora la sua festa, alla quale tutti gli umili sono invitati. E’ di rigore l’abito rosso e nero.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy