di Michele Paris

Il ritorno alla vittoria di Mitt Romney martedì in Michigan e in Arizona ha permesso al miliardario mormone di fermare la rimonta del suo principale rivale per la nomination repubblicana, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, e di riconquistare un certo slancio in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Pur senza fugare i dubbi che in molti nel partito continuano a nutrire nei suoi confronti, Romney sembra comunque poter guardare ora all’imminente Supermartedì con una certa fiducia, nonostante una serie di primarie e caucus sulla carta tutt’altro che agevoli.

Il Michigan, in particolare, era visto come un test cruciale per il candidato repubblicano con i maggiori mezzi finanziari a disposizione. Qui, infatti, Romney è nato e cresciuto, mentre il padre ha ricoperto la carica di governatore negli anni Sessanta. La sua opposizione al salvataggio di General Motors e Chrysler da parte dell’amministrazione Obama nel 2009 e le accuse di elitismo lanciategli dagli avversari dopo alcune gaffes sulla sua ricchezza in uno degli stati più colpiti dal tracollo dell’economia americana, avevano tuttavia ridotto sensibilmente il margine di vantaggio che vantava su Santorum fino ad un paio di settimane fa.

In alcuni recenti sondaggi, quest’ultimo appariva addirittura in vantaggio, anche grazie ad un certo successo del suo appello populista tra i settori della working-class più disorientati dalla crisi economica. A rimettere in piedi un Romney che godeva dell’appoggio di tutto l’establishment repubblicano del Michigan, è stata più che altro una nuova ondata di messaggi elettorali finanziati da una campagna milionaria e, in definitiva, gli stessi limiti di Santorum nell’allargare la propria base elettorale al di là degli ambienti più conservatori.

I risultati definitivi in Michigan hanno in ogni caso consegnato a Romney una vittoria di misura, con il 41,1% dei consensi contro il 37,9% per Santorum. Al terzo posto è giunto il deputato libertario del Texas, Ron Paul (11,6%), davanti all’ex speaker della Camera, Newt Gingrich (6,5%), il quale non aveva praticamente fatto campagna elettorale nello stato. In termini di delegati conquistati, tuttavia, il successo di Romney è stato neutralizzato dalla prestazione di Santorum. Il Michigan assegna infatti i delegati in palio (30) in base ai risultati ottenuti dai candidati in ogni singolo distretto elettorale, così che i primi due classificati finiranno per spartirsi un numero pressoché uguale di delegati.

Al vincitore delle primarie dell’Arizona, invece, sono stati attribuiti tutti e 29 i delegati in palio. Nello stato del sud-ovest degli Stati Uniti, un Romney sostenuto sia dalla governatrice, Jan Brewer, che dal senatore John McCain, ha inflitto un distacco di oltre 20 punti a Santorum (47,3% a 26,6%), penalizzato anche da una performance poco convincente in un dibattito televisivo andato in scena settima scorsa nella città di Mesa. Ancora più staccati sono stati Gingrich e Paul, attestati rispettivamente al 16,2% e all’8,4%.

Al termine dei primi due mesi di primarie repubblicane, Mitt Romney ha conquistato sei stati (New Hampshire, Florida, Maine, Nevada, Arizona e Michigan), quattro sono andati a Rick Santorum (Iowa, Colorado, Minnesota e Missouri) e uno a Newt Gingrich (Carolina del Sud).

Anche se Mitt Romney è dunque riuscito a risollevarsi dopo le sconfitte per mano di Santorum tre settimana fa in Colorado, Minnesota e Missouri, le perplessità nei suoi confronti dell’ala più reazionaria del Partito Repubblicano rimangono molti forti. Tanto più che l’elettorato repubblicano in queste primarie appare spostato sempre più a destra, come hanno confermato gli exit poll in Michigan.

Qui il 40% dei votanti si è definito cristiano evangelico e il 30% di fede cattolica, come Santorum. Romney continua ad essere visto con sospetto dalla destra evangelica e dagli aderenti ai Tea Party, sia per le sue precedenti posizioni relativamente liberal sui temi sociali sia per la firma che ha posto sulla legge relativa alla copertura sanitaria in Massachusetts che pare essere servita da modello alla riforma di Obama.

Il fondamentalismo cristiano di Rick Santorum sta trovando così terreno fertile tra le frange più retrograde dei votanti in queste primarie repubblicane. Non a caso, il voto di martedì è stato preceduto da una serie di inquietanti interventi pubblici di stampo ultra-conservatore dell’ex senatore della Pennsylvania, ad esempio contro i metodi contraccettivi, l’interruzione di gravidanza, l’emancipazione femminile, l’accesso al college o la separazione tra stato e chiesa.

Posizioni estreme, queste ultime, che hanno verosimilmente allontanato una parte degli elettori in Michigan e messo i brividi ai vertici del partito e ai commentatori conservatori, preoccupati che l’eventuale nomination di Santorum possa portare ad una sicura sconfitta repubblicana contro Obama il prossimo novembre. Addirittura, alcuni giornali nei giorni scorsi erano giunti ad avanzare l’ipotesi che l’eventuale emergere di Santorum come “front-runner” avrebbe potuto spingere un nuovo autorevole candidato repubblicano a entrare in corsa per la nomination a primarie già in corso.

Particolarmente allarmanti, anche per la loro natura profondamente anti-democratica, sono state le parole dello stesso Santorum in un’apparizione settimana scorsa nel programma della ABC “This Week”. Parlando di una sua precedente osservazione circa John F. Kennedy, Santorum ha ribadito la sua totale disapprovazione per l’allora candidato democratico alla presidenza quando, in un discorso tenuto di fronte ad una convention di ministri di fede battista nel 1960, riaffermò il principio costituzionale di separazione tra stato e chiesa.

Santorum ha affermato di non credere “in un’America dove la separazione tra Stato e Chiesa è assoluta” e che “l’idea che la Chiesa non possa avere alcuna influenza sulla vita dello Stato è del tutto antitetica alla natura e agli obiettivi del nostro paese”. La posizione sostenuta da Santorum, peraltro ben poco sorprendente alla luce delle opinioni da lui espresse in questi mesi, contiene una grave minaccia alle fondamenta stesse del secolarismo su cui sono stati fondati gli Stati Uniti.

Santorum e gli estremisti cristiani che lo appoggiano sembrano infatti avere una visione quasi pre-illuminista dei rapporti tra Stato e Chiesa e auspicano una pericolosa interferenza della religione nelle politiche dello stato per influenzare la legislazione in ogni ambito, dall’interruzione di gravidanza all’educazione.

In risposta a questa deriva, Romney da parte sua non ha proposto un’alternativa moderata, bensì ha evitato di sollevare i temi sociali più scottanti ed ha attaccato da destra Santorum sulle questioni economiche, di gran lunga in cima alla lista delle preoccupazioni di tutti gli elettori americani.

La chiave per il successo finale di Romney in queste primarie risiede appunto nella sua eventuale capacità di affermarsi come il candidato più idoneo a far ripartire l’economia americana, facendo passare in secondo piano le questioni sociali che, allo stesso tempo, risultano però al centro dell’attenzione di buona parte degli elettori che dovrà conquistarsi per centrare la nomination.

Le chances di Romney verranno severamente messe alla prova il 6 marzo prossimo, quando nel tradizionale Supermartedì sarà in palio complessivamente circa il 40% dei delegati necessari per assicurarsi la nomination repubblicana. In questa tornata saranno chiamati al voto alcuni stati nel sud del paese e del mid-west (Tennessee, Oklahoma, Georgia, Ohio), nei quali Romney potrebbe faticare a raccogliere consensi, mentre dovrebbero essere più favorevoli a Santorum o a Gingrich. Questi ultimi non appariranno però sulle schede in un importante stato come la Virginia, dove non hanno raccolto abbastanza firme per presentare la loro candidatura, lasciando perciò la strada spianata a Romney.

Se, come previsto, dal Supermartedì non uscirà un chiaro favorito, ci saranno tutte le condizioni per una corsa prolungata e dispendiosa nella quale a risultare decisive saranno le risorse finanziarie a disposizione dei vari candidati e delle SuperPAC che li sostengono. Le sorti delle campagne elettorali dei contendenti repubblicani sono infatti in gran parte determinate dalla generosità di un ristretto numero di facoltosi donatori, in grado di iniettare decine di milioni di dollari in una competizione caratterizzata dalla generale indifferenza della maggior parte degli americani.

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