di Mariavittoria Orsolato

E' finita nel peggiore dei modi l'avventura politica di Fernando Armindo Lugo Mendez, l'ex vescovo e teologo della liberazione che il 20 aprile 2008 venne eletto alla presidenza del Paraguay, imponendo una svolta a sinistra dopo 35 anni di feroce dittatura e dopo 17 di quella che i paraguayani definirono “democradura”, ovvero la lunga transizione ultra-conservatrice che seguì la fine di Alfredo Stroessner. Lo scorso venerdì il Senato di Asuncion ha ratificato l'impeachment del presidente, destituendolo dalla carica in quanto “responsabile politico” della morte di 17 persone.

Con 39 voti di condanna, appena 4 di assoluzione e due astenuti, il giudizio dei senatori ha seguito a tempo di record quello della Camera, estromettendo coattamente Lugo dalla presidenza e ponendo alla guida del Paese il vicepresidente in carica Federico Franco, esponente del Partido Liberal Radical Autentico, il più a destra tra i partiti dell'Alianza Patriotica para el Cambio.

Un politico che già agli albori dell’alleanza con Lugo, nel 2008, aveva destato sospetti sulla bontà e sull'onesta del suo impegno con l'ex monsignore e che in questi 4 anni di governo ha fomentato ben 22 tentativi di impeachment, riuscendoci solo al 23esimo. Ma andiamo per ordine.

Venerdì 15 giugno un gruppo di poliziotti che stava eseguendo un ordine di sgombero nella zona di Canindeyú alla frontiera con il Brasile, viene attaccato da tiratori scelti dell’esercito mimetizzati fra i campesinos che reclamavano terre per sopravvivere. L’ordine di procedere arriva direttamente da un giudice e da un pubblico ministero per proteggere un latifondista. Risultato: sul suolo di Curuguaty, la frazione interessata dal blitz, rimangono 17 morti, di cui 6 poliziotti e 11 contadini, e decine di feriti gravi.

Il “fattacio” viene immediatamente strumentalizzato dalla destra dell'oligarchia e dei latifondisti - in Paraguay, è bene ricordarlo, l'89% dei terreni è nelle mani del 2% della popolazione - che vede in esso un'irripetibile occasione per sferrare un duro colpo alla sinistra corporativa, di cui Lugo si fece a suo tempo alfiere, accusandola di fomentare l'odio sociale tra i campesinos e di minare così la sicurezza interna.

L'obiettivo, come scrive il giornalista paraguayo Idilio Méndez Grimaldi, è semplice: “avanzamento del commercio agricolo estrattivista per mano di multinazionali come la Monsanto mediante la persecuzione dei contadini e alla confisca delle loro terre e, infine, l’installazione di una platea conveniente all’oligarchia e ai partiti di destra per il loro ritorno trionfale al potere esecutivo nelle elezioni del 2013”.

Una chiara strategia di delegittimazione da parte di forti poteri esogeni - leggi: grandi multinazionali dell'agricoltura e i governi primomondisti che le assecondano - per riguadagnare il terreno perduto nell'onda socialista che ha travolto il Sudamerica durante gli anni zero e che ha riposizionato le priorità produttive e sociali dei maggiori esportatori di materi prime.

Il modus operandi con cui queste entità internazionali agiscono sul continente latinoamericano sono ben note (golpe e imposizioni di governi fantoccio ma assolutamente autoritari, accondiscendenti con le elites e sanguinari con il popolo) e il sospetto che il piano Condor non sia ancora stato archiviato non può avere in questo caso una matrice complottista.

Dati questi elementi, la manovra del parlamento paraguayano non può essere quindi vista altrimenti se non nei termini di un golpe. E poco importa che quest'ultimo sia stato portato avanti seguendo, a livello procedurale, tutti i crismi dell'iter costituzionale. Lo stesso Lugo nella sua prima apparizione pubblica dopo il voto del Senato, ha definito la sua estromissione un “golpe parlamentare”.

L'ex vescovo ha spiegato a una folla di circa 500 suoi sostenitori, radunati ad Asuncion e pronti a protestare, di aver accettato la sua estromissione pur ritenendola ingiusta per non creare problemi di sicurezza. Ha quindi invitato tutti a manifestare in maniera decisa ma pacifica, in modo da evitare nuovi scontri sanguinosi con la polizia.

Nella serata di venerdì le proteste di piazza sono infatti montate velocemente e ma sono state represse con l'usuale violenza nel giro di poche ore. Mentre da Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay, Bolivia ed Ecuador arriva immediata la condanna a quello che le rispettive voci presidenziali definiscono senza timore un colpo di stato. I primi quattro paesi ritirano i propri ambasciatori dal territorio paraguayano “finché non si ristabilisca la democrazia nel paese”, e lo stesso Venezuela di Hugo Chavez ha ordinato il blocco dei rifornimenti di petrolio al paese.

A venire messa in discussione è anche la stessa partecipazione del Paraguay alle comunità di Unasur e Mercosur; il provvedimento dell’espulsione da questi organismi è stato proposto dai paesi membri, in quanto sarebbero venuti a mancare i “principi che caratterizzano una democrazia”. La vigilanza da parte delle democrazie latinoamericane é quindi comprensibilmente alta. Lo spettro di una nuovo periodo di instabilità è infatti nuovamente calato sul Paraguay e il timore che i fatti di Curuguaty siano solo la miccia della polveriera che potrebbe spazzar via gli importanti traguardi raggiunti dalle democrazie sudamericane è tutt'altro che infondato.

 

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