di Michele Paris

Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo avere ottenuto un secondo mandato alla Casa Bianca, Barack Obama ha parlato martedì di fronte ai due rami del Congresso USA facendo ancora una volta ricorso ai toni populisti che hanno caratterizzato le sue più recenti uscite. Come già accaduto nel discorso di inaugurazione dello scorso mese di gennaio, il presidente democratico ha infatti avanzato una serie di improbabili proposte che dovrebbero beneficiare la classe media d’oltreoceano, rivelando così un’apprensione crescente in alcune sezioni della classe dirigente di Washington per le resistenze diffuse nel paese nei confronti delle politiche messe in atto in questi anni esclusivamente a favore di una ristretta cerchia di privilegiati.

Secondo i commenti ufficiali seguiti all’intervento di Obama, il punto centrale del discorso sarebbe stato il tentativo di rilanciare il ruolo del governo nella promozione della crescita economica e, ancor più, nella riduzione delle disuguaglianze di reddito prodotte da oltre tre decenni di deregolamentazione dell’economia e dell’industria finanziaria americana e ulteriormente aumentate dal 2009 a oggi.

Obama ha dunque invitato il Congresso ad innalzare per legge il livello infimo dello stipendio minimo negli Stati Uniti, attualmente fissato a 7,25 dollari l’ora. Per l’inquilino della Casa Bianca, la paga minima dei lavoratori americani dovrebbe salire progressivamente a 9 dollari l’ora entro la fine del 2015 e successivamente essere ancorata al livello di inflazione.

Questo provvedimento, fortemente avversato dagli ambienti conservatori, contrari a qualsiasi intervento che possa intaccare i profitti delle compagnie private, dovrebbe riguardare 15 milioni di lavoratori negli USA, anche se, ad esempio, un nucleo familiare monoreddito di tre persone con un salario a 9 dollari l’ora rimarrebbe comunque al di sotto dell’irrisoria soglia ufficiale di povertà.

Inoltre, la paga oraria minima proposta martedì da Obama risulta inferiore ai 9,5 dollari che l’allora senatore dell’Illinois aveva chiesto in campagna elettorale quasi cinque anni fa e, tenendo in considerazione l’inflazione, ben al di sotto anche dei livelli raggiunti negli anni Sessanta e Settanta.

Assieme all’assurda affermazione che gli americani “uniti” hanno “spazzato via le macerie della crisi”, Obama ha poi elencato una lunga serie di provvedimenti da adottare in vari ambiti, dall’immigrazione alla riduzione delle emissioni in atmosfera, dal controllo sulla vendita delle armi all’educazione pubblica, ben consapevole però dell’improbabilità di vederli approvati da un Congresso diviso tra i due principali partiti.

Nel gioco delle parti di una politica americana totalmente al servizio dei poteri forti, la consueta replica al discorso sullo stato dell’Unione del presidente è stata affidata quest’anno al senatore repubblicano ultra-conservatore della Florida, Marco Rubio, da molti già considerato come un probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016.

Il contro-intervento di Rubio ha prevedibilmente bocciato le misure avanzate da Obama, ispirate, a suo dire, dalla solita tendenza dei democratici ad aumentare le tasse e ad assegnare un ruolo eccessivo al governo federale. Una posizione quella esposta dai repubblicani che conferma l’impraticabilità politica del percorso tracciato da Obama, a parte forse sulla questione dell’immigrazione, vista da molti nel partito del senatore cubano-americano come un’occasione per conquistare qualche consenso tra l’elettorato ispanico.

Le parole di Obama hanno invece mandato quasi in delirio media e commentatori liberal, precipitatisi a scrivere di come il presidente democratico abbia delineato il futuro di un paese che non deve obbligatoriamente rimanere impantanato perennemente nelle politiche di austerity ma che abbia il coraggio di liberare risorse da investire nell’educazione o in un massiccio programma di lavori pubblici. Il tutto, ovviamente, senza aumentare un deficit già ben oltre i livelli di guardia.

Come ha recitato l’editoriale di mercoledì del New York Times, Obama avrebbe spiegato “ad una vasta platea quello che potrebbe essere realizzato se solo si raggiungesse un minimo di consenso a Washington”. Un’affermazione, quest’ultima, che rivela la solita fantasia liberal di come sia sufficiente trovare un punto d’incontro tra i politici dei due schieramenti per correggere le imperfezioni del sistema e raggiungere un livello accettabile di giustizia sociale nel paese, tralasciando deliberatamente di evidenziare la crisi strutturale del capitalismo americano, il cui tentativo di salvataggio è la ragione principale delle politiche anti-sociali implementate dopo il crollo dell’economia a partire dall’autunno del 2008.

Come hanno ampiamente dimostrato le principali iniziative intraprese dall’amministrazione Obama nel corso del suo primo mandato, inoltre, il ruolo attribuito al governo federale dall’attuale presidente difficilmente coincide con una visione progressista. Solo per citare uno degli esempi più lampanti, l’intervento deciso nel 2009 per “salvare” i giganti dell’auto di Detroit ha avuto infatti come scopo il ritorno all’accumulazione di profitti per questi ultimi tramite lo smantellamento dei diritti degli operai e il dimezzamento delle retribuzioni.

Allo stesso modo, l’utilizzo degli strumenti a disposizione del governo per il vantaggio dei poteri forti è risultato evidente anche nell’ambito della cosiddetta riforma del sistema sanitario, il cui fine non è mai stato il diritto alle cure mediche di ogni cittadino, bensì la riduzione dei costi attraverso il razionamento dei servizi e la messa a disposizione di decine di milioni di nuovi clienti per le compagnie assicurative private.

Nonostante l’ampio spazio riservato da Obama alle questioni economiche, il momento probabilmente più significativo del suo discorso è giunto quando il presidente ha citato, sia pure velatamente, le manovre in corso attorno al programma di assassini mirati con i droni. Il pubblico americano ha infatti dovuto assistere allo spettacolo sconcertante di un presidente che, di fronte al Congresso di un paese considerato la culla della democrazia, ha proclamato, senza suscitare alcuna reazione, l’assunzione nelle mani dell’esecutivo di poteri di fatto da stato di polizia.

Parlando di sicurezza nazionale, Obama ha cioè spiegato che, “quando si renderà necessario, attraverso una serie di misure, continueremo ad agire in maniera diretta contro quei terroristi che rappresentano una grave minaccia per gli americani”. Il riferimento agli assassini extra-giudiziari tramite i velivoli senza pilota è risultato evidente a tutti i presenti nell’aula che ospita la Camera dei Rappresentanti.

Obama ha poi ribadito la volontà della sua amministrazione di “creare stabili fondamenta legali” per simili operazioni svincolate da ogni supervisione giudiziaria, così da istituzionalizzarle e dare un’impressione di trasparenza alla gestione di un programma criminale e palesemente contrario ai principi fondamentali della Costituzione.

L’assenza di obiezioni tra i politici o i giudici della Corte Suprema che hanno ascoltato queste affermazioni del presidente sono state seguite dalla stessa mancanza di commenti su questo punto nei media d’oltreoceano, impegnati piuttosto a celebrare la presunta sterzata progressista del presidente agli albori del suo secondo mandato. Un silenzio assordante quello a cui si è assistito martedì che la dice lunga sullo stato di decomposizione delle istituzioni democratiche dell’Unione nell’era Obama.

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