di Fabrizio Casari

Con oltre il 60 per cento dei consensi, Rafael Correa è stato confermato alla guida dell’Ecuador, che avrà così altri quattro anni di “Rivoluzione dei cittadini” per completare l’ammodernamento e la democratizzazione del paese. E’ la sesta vittoria consecutiva in consultazioni popolari di varia natura dal 2006 ad oggi. Lo slogan della campagna elettorale di Correa “Abbiamo già un Presidente”, è risultato profetico quanto azzeccato.

Non c’erano molti dubbi sulla vittoria di Correa, dato che il suo mandato si è caratterizzato per la sostanziale realizzazione di quanto promesso quattro anni fa. Un programma di riforme sociali ed economiche che ha portato ad una sensibile riduzione della povertà estrema nel paese, e che attraverso opere sociali di straordinario impatto e di grande efficacia, ha scritto la parola fine alla storia dei governi che l’avevano preceduto.

Governi liberisti che avevano disegnato per il paese andino un ruolo da repubblica delle banane al servizio di Washington, senza che però potessero evitare rovesci popolari, dal momento che quattro sui cinque presidenti prima di lui vennero deposti prima della fine del loro mandato sull’onda delle sollevazioni popolari contro le politiche neoliberiste guidate dalla popolazione indigena (30 per cento del totale).

Ben altra storia ha caratterizzato l’Ecuador di Correa, che proprio delle lotte sociali e politiche della parte più umile della popolazione è stato l’espressione. Il segno politico più evidente è stato la modifica della Costituzione: convocò l’Assemblea Costituente e ruppe con il precedente ordinamento su base oligarchica, trasformando l’Ecuador in uno stato plurinazionale dove vengono riconosciute la specificità indigena. Un amalgama ben riuscita tra le radici e la storia millenaria da un lato e la proiezione futura dall’altro, un’irruzione democratica della tradizione storica di un paese che nel prefigurare la direzione verso la quale va, non occulta o dimentica da dove viene.

Il cambiamento radicale della politica nazionale ed estera del paese non è stato del tutto indolore: per aver rifiutato di sottoscrivere il TLC con gli USA, averli espulsi dalla base militare di Manta, essersi scontrato con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario ed aver dato vita ad una cooperazione strettissima sia nel campo petrolifero che in quello politico con il Venezuela, Correa è stato vittima di complotti e tentativi di colpo di Stato concepiti a Washington, tutti miseramente falliti proprio grazie alla popolarità di cui ha goduto e gode presso la sua popolazione.

Economista e accademico, giunto alla presidenza sull’onda delle lotte sociali che avevano scosso il paese dalle fondamenta, Correa ha decisamente azzerato le politiche neoliberiste che avevano piegato il Paese. Investimenti pubblici finanziati con la rendita petrolifera che hanno certificato il valore di una politica economica anticiclica e che hanno fornito i numeri ad una crescita a doppia cifra.

La decisa inversione di marcia, della quale hanno beneficiato le classi più povere, è stata appunto possibile grazie ad un ruolo sempre più centrale dello Stato nell’economia, nel solco di quanto le democrazie latinoamericane hanno concepito e realizzato in quest’ultima decade.

I dati parlano chiaro: riduzione della povertà costante (solo nel 2012 è passata dal 37,1 al 32,4 per cento), mentre sono state incrementate le quote di PIL destinate all’istruzione (dal 2,5 al 6 per cento) intestando così all’Ecuador il tasso più alto di investimenti in rapporto al PIL di tutta la regione. Le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto  che l’Ecuador “ha ora nella missione nazionale nell’educazione una delle priorità di governo”. Stessa marcia anche nella salute: se nel 2006 si spendevano 561 milioni di dollari, Correa ha ampliato enormemente l’area di intervento dalla sanità pubblica e ne ha aumentato il gettito, portandolo a 1774 milioni e posizionandolo così al 6,8% del PIL.

Altrettanto è stato realizzato sul terreno dell’assistenza alla parte più povera della popolazione: basta dire che il “programma di sviluppo umano” decretato dal Presidente ha visto un investimento di centinaia di milioni di dollari e oggi, il “buono di sviluppo umano” prevede l’assegnazione di 50 dollari al mese come sostegno diretto dello stato a circa 2 milioni di cittadini su un totale di 15 milioni di abitanti. I crediti per l’acquisto della casa  hanno visto investimenti per centinaia di milioni di dollari.

A queste politiche si sono sommate opere pubbliche di assoluta importanza come la grande rete stradale, che ha agevolato lo spostamento di parti intere del paese precedentemente prive di vie di comunicazione. Il tutto accompagnato da un livello di trasparenza nella comunicazione tra il governo e la popolazione mai conosciuto prima e che è diventato un esempio in tutto il continente latinoamericano.

Dati che sono inseribili all’interno di una potente crescita economica determinata certo anche dall’aumento del prezzo del petrolio, di cui l’Ecuador è tra i primi produttori al mondo. Ma, come già in Venezuela prima di Chavez, anche in Ecuador prima dell’arrivo di Correa le ricchezze derivanti dalla vendita del petrolio non avevano significato null’altro che la messa all’ingrasso della borghesia nazionale mentre la distanza con la parte povera della popolazione diveniva ogni giorno maggiore. Proprio sull’utilizzo pubblico delle risorse energetiche Correa ha scelto politiche opposte a quelle dei suoi predecessori, indirizzando i proventi verso programmi sociali destinati al miglioramento delle condizioni di vita della parte più povera della popolazione.

E certo non secondaria, ai fini del raggiungimento di questi obiettivi, è stata la scelta unilaterale di Correa di procedere ad una rivisitazione e ristrutturazione del debito estero, sfidando le ire del Fondo Monetario e della Banca Interamericana dello Sviluppo che ritenevano auspicabile continuare ad ingrassare le banche e i fondi speculativi del Nord che avevano contratto con i governi precedenti accordi a esclusivo vantaggio della depredazione costante delle ricchezze della nazione andina.

Coerentemente con i loro padroni, la grande borghesia imprenditoriale, che ha votato in massa per il suo principale oppositore, Guillermo Lasso, (giunto al 24% dei consensi) non ha riconosciuto l’avanzamento evidente delle condizioni generali dell’economia nazionale e, con essa, della democratizzazione del sistema paese. C’è da capirli: nel nuovo Ecuador i ricchi pagano le tasse, il doppio di quanto pagavano fino al 2006, e la maggior somma è stata quasi interamente destinata ai programmi di assistenza sociale. Una sorta di versamento costante da chi ha troppo verso chi ha troppo poco.

In obbedienza a quanto promesso, anche in politica estera Correa ha disegnato un cammino improntato alla fine della dipendenza dagli Stati Uniti (ai quali appunto ha negato la possibilità di usufruire della base militare di Manta e di mettere le loro manacce su Julian Assange, al quale ha offerto asilo politico nella sua ambasciata di Londra) e alla convinta adesione all’ALBA insieme a tutta l’America Latina di stampo socialista. Legato da profondi vincoli con Cuba, non esitò a disdire la sua partecipazione dal Vertice di Cartagena per protesta verso l’esclusione dell’isola socialista.

Correa si è quindi caratterizzato come uno dei leader più giovani e capaci della riscossa democratica dell’America Latina e nello scegliere per il suo paese la strada dell’indipendenza dagli Usa sostituendola con la stretta relazione di cooperazione economica e politica con i paesi latinoamericani - Venezuela, Cuba e Bolivia in primo luogo. La sua vittoria, che ha scelto di dedicare al suo fraterno amico Hugo Chavez, seppellisce da Quito il Washington consensus, rafforza ulteriormente il progetto d’integrazione latinoamericana e, proclamata nelle stesse ore in cui il Presidente Chavez rientrava a Caracas per continuare le sue cure, disegna uno straordinario, meraviglioso dipinto per la nuova America Latina, figlia della ribellione e madre della sua sovranità.





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